UN PROGETTO DELLA BROWN UNIVERSITY, INSIEME AL CNR-IIA E A D-ORBIT

Missione riuscita per Sbudnic l’eco-cubesat

Piccolo, economico e realizzato con componenti commerciali – è controllato da Arduino e alimentato da 48 comuni batterie AA – il satellite della Brown University era stato progettato già in origine per auto-smaltirsi in tempi rapidi. E sta mantenendo le promesse, grazie a una speciale “vela frenante” che lo fa deorbitare a tempo record

     30/03/2023

Il cubesat Sbudnic con la vela dispiegata. Crediti: Marco Cross/Brown University

Lanciato il 25 maggio 2022 da Cape Canaveral con un razzo Falcon 9 di SpaceX, Sbudnic è un satellite minuscolo: tecnicamente è un 3U cubesat, dunque un oggetto grande più o meno quanto una confezione di pane in cassetta. Minuscolo ma con una grande missione: dimostrare come, con i dovuti accorgimenti, anche l’occupazione dello spazio orbitale possa avvenire in modo sostenibile. Missione pienamente riuscita: il satellite ha dispiegato con successo il suo dispositivo di trascinamento, una innovativa drag sail in Kapton stampata in 3D, progettata per aumentare la resistenza aerodinamica del satellite e accelerarne il decadimento orbitale dai nominali 25-27 anni a soli 5 anni, riducendo i tempi di rientro del satellite dell’80 per cento. L’annuncio arriva dagli studenti della Brown University, che lo hanno costruito, e dall’Istituto sull’inquinamento atmosferico del Cnr (Cnr-Iia), partner della collaborazione, con il supporto di D-Orbit, Amsat-Italia, Sapienza Università di Roma e del consorzio Nasa Rhode Island Space Grant.

Il grafico mostra quanto sia più bassa l’orbita di Sbudnic, rappresentata dalla linea blu spessa, a confronto con altri satelliti simili rilasciati dalla missione Transporter-5, tra fine maggio 2022 e inizio marzo 2023. Crediti: Brown University, Cnr-Iia

Secondo la Nasa, sono oltre 27mila i detriti orbitali – o rifiuti spaziali, se preferite – attualmente tenuti d’occhio dalla Space Surveillance Network (Ssn) del Dipartimento della difesa degli Usa. Si tratta di veicoli spaziali non funzionanti, vettori di lancio abbandonati, detriti legati alle missioni e residui di frammentazioni. Tutti oggetti che si trovano nell’orbita terrestre pur non avendo più alcuna funzione utile. Ne fanno ovviamente parte anche i satelliti in disuso, che rimangono in orbita a volte decenni dopo il completamento della loro missione. Ecco così che il team di studenti che ha progettato Sbudnic ha deciso di pensare sin dall’inizio anche allo “smaltimento”. Come? Integrando nel satellite, appunto, la “vela frenante”, che in appena dieci mesi ha già portato il cubesat dai 520 km dell’orbita di partenza ai 470 km registrati a inizio marzo, quando i suoi “compagni di viaggio” ancora si trovavano oltre quota 500 km.

«Nei dati di tracciamento si può vedere che siamo visibilmente al di sotto di tutti gli altri, e che ci stiamo allontanando da loro sempre più veloci. La teoria era già ben nota», dice riferendosi al principio fisico della drag sail il professore alla guida del progetto, Rick Fleeter della Brown University. «Ciò che la missione ha mostrato riguarda più il processo: come costruire un meccanismo in grado di realizzarlo e come farlo in modo che sia leggero, piccolo e conveniente».

In alto, il team di Sbudnic della Brown University. In basso, Lorenzo Bigagli, coordinatore del progetto per il Cnr, alla piattaforma di lancio. Crediti: Brown Univ, Cnr-Iia

Riguardo a quest’ultimo punto, i costi di realizzazione sono stati davvero contenutissimi. Basti pensare che Sbudnic è controllato da Arduino Uno, un microprocessore da poco più di 20 euro molto popolare tra gli appassionati di robotica, ed è alimentato da 48 normali batterie AA. Sì, avete letto bene: le comuni pile per uso domestico, acquistate per l’occasione nella tabaccheria del campus. Estremamente contenuto – grazie all’impiego di componenti commerciali – anche il tempo di realizzazione: dal prototipo allo spazio in meno di un anno.

«Sbudnic ha centrato il suo principale obiettivo», conclude Lorenzo Bigagli, coordinatore del progetto per il Cnr e ricercatore della sede di Firenze dell’Istituto sull’inquinamento atmosferico, «cioè dimostrare che le sinergie con realtà industriali come D-Orbit rendono il new space effettivamente più accessibile per l’università e la ricerca, a tutto vantaggio del progresso scientifico e tecnologico nell’esplorazione spaziale e nello sviluppo sostenibile di nuove capacità di osservazione della Terra».