GLI ELEMENTI CHIMICI DEL MEZZO INTERSTELLARE NON SONO MESCOLATI BENE

Via Lattea, una galassia mal amalgamata

Il gas presente nel disco della nostra galassia, ritenuto fino a oggi chimicamente molto uniforme, presenta in realtà una metallicità assai variabile, con regioni alquanto povere dal punto di vista chimico. È il risultato inatteso al quale è giunto uno studio, appena pubblicato su Nature, guidato da Annalisa De Cia dell’Università di Ginevra e condotto su osservazioni compiute con il Very Large Telescope e lo Hubble Space Telescope

     08/09/2021

Rappresentazione artistica della Via Lattea – ottenuta a partire dai risultati dello studio di De Cia et al. – nel quale si vede il gas accrescere la galassia senza però mescolarsi appieno. Crediti: Dr. Mark A. Garlick

Siete più da minestrone o da vellutata? Se preferite il primo, con i suoi ingredienti ben distinti e in grande varietà, il gas del disco della nostra galassia – la Via Lattea – potrebbe essere di vostro gradimento. Da uno studio i cui risultati sono stati pubblicati oggi su Nature, condotto su dati raccolti in banda ultravioletta con lo Hubble Space Telescope e in ottico con il Very Large Telescope, è emerso che la metallicità del mezzo interstellare – ovvero gli elementi diversi da idrogeno ed elio presenti nel gas fra una stella e l’altra – mostra una variabilità inaspettata. Molto più elevata del previsto.

«Il gas interstellare è una componente fondamentale nelle galassie, inclusa la nostra Via Lattea. Finora si pensava che questo gas fosse omogeneo. Noi invece abbiamo scoperto che gli elementi chimici nel gas della Via Lattea non sono mescolati bene», spiega la prima autrice dello studio, Annalisa De Cia, professoressa d’astrofisica all’Università di Ginevra, in Svizzera, «e che ci sono regioni molto povere dal punto di vista chimico, prodotte dall’accrescimento di gas cosmico “vergine” sulla nostra galassia». Regioni chimicamente così povere da avere una metallicità pari ad appena il 17 per cento di quella registrata nei dintorni del Sole, se non meno.

Accorgersene non è stato facile. Misurare le quantità degli elementi chimici presenti nel mezzo interstellare è un’operazione resa particolarmente ostica dal fenomeno della dust depletion – un “impoverimento da polvere”: quando si vanno a osservare le righe di assorbimento negli spettri per capire quali elementi sono presenti nel gas e in quale quantità, molti non rispondono all’appello perché si ritrovano imprigionati in minuscole particelle di polvere. Consapevoli del fenomeno, gli astronomi hanno per lungo tempo attribuito la bassa metallicità riscontrata nel mezzo interstellare nei dintorni del Sole, per esempio, proprio alla dust depletion. E hanno ipotizzato che, se il fenomeno si fosse potuto annullare, non si sarebbe osservata una grande differenza fra la metallicità del Sole e quella del gas nelle sue vicinanze. Insomma, l’idea era che il gas fosse ben amalgamato – come una vellutata, appunto.

Ma era solo un’ipotesi. De Cia e colleghi sono invece riusciti a trovare un metodo per correggere l’errore introdotto dalla dust depletion e per misurare direttamente la metallicità del mezzo interstellare. Metodo che hanno applicato alle osservazioni dei dintorni di 25 stelle, scoprendo così che non di vellutata si tratta, bensì di un minestrone di elementi ben variegato. E che anche stelle coetanee possono avere metallicità assai diverse, a causa della maggiore o minore opera di “ringiovanimento” dovuta alla distribuzione poco uniforme del gas primigenio – a metallicità bassissima – entrato nella Via Lattea dall’esterno.

Annalisa De Cia, prima autrice dello studio, mostra la posizione nella Via Lattea delle 25 regioni verso le quali sono state condotte le osservazioni. La loro metallicità, una volta corretto l’errore introdotto dalla polvere, è rappresentata da una scala di grigi, dove il nero indica un mezzo interstellare ricco di sostanze chimiche e il bianco un mezzo interstellare incontaminato

«Questi risultati hanno un impatto profondo sulla nostra comprensione di cosa sono le galassie e come evolvono», osserva De Cia. «Il gas cosmico accresce sulle galassie, le stelle si formano da questo gas e producono gli elementi chimici di cui anche noi siamo formati – ossigeno, carbonio, magnesio e ferro, tra gli altri. Il fatto che il gas interstellare non sia chimicamente omogeneo significa che le nuove stelle possono originarsi con diverse composizioni chimiche, e questo può influenzare quali elementi chimici verranno ulteriormente prodotti; elementi che sono fondamentali per la formazione di pianeti, molecole, e infine per l’origine della vita».

Forse non è un caso che a escogitare il nuovo metodo sia stata proprio De Cia. Fra le tante linee di demarcazione che suddividono le specializzazioni degli astronomi, una molto sentita è quella fra “galattici” ed “extragalattici”: i primi si occupano di quel che sta nella Via Lattea, i secondi invece dei restanti miliardi di miliardi di galassie presenti nell’universo. De Cia fino a poco tempo fa lavorava con gli “extragalattici”, e il suo sguardo abituato a posarsi lontano, volto in quest’occasione a ciò che accade qui nella Via Lattea, potrebbe aver fatto la differenza.

«Finora avevo studiato il gas in galassie distanti», dice infatti a Media Inaf, «per le quali abbiamo molte meno informazioni rispetto alla nostra galassia. Per esempio, non si possono risolvere le singole stelle in galassie lontane, e per questo non possiamo usare le informazioni sulle stelle per dedurre le proprietà del gas. Così ho dovuto trovare un modo diverso per interpretare le abbondanze chimiche del gas interstellare nelle galassie distanti. Mi sono resa conto che questo approccio “straniero” ci avrebbe aiutato a capire in modo più profondo la natura della nostra stessa galassia, casa nostra».

Ecco così che, se di solito gli astronomi hanno necessità di telescopi sempre più potenti e strumenti sempre più sensibili, in questo caso – paradossalmente – c’era quasi il problema opposto. «Ero abituata ad osservare sorgenti distanti e flebili, per le quali il Very Large Telescope e Hubble sono perfettamente adeguati. Ma adesso stavamo osservando le stelle più brillanti: alcune potevo vederle ad occhio nudo, in Orione per esempio. Ho così scoperto», conclude De Cia, «che non è per nulla scontato puntare Hubble su queste sorgenti brillanti, assicurandosi di non bruciare i suoi sensibilissimi strumenti».

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