L’ULTIMA FRONTIERA DELL’ESPLORAZIONE SPAZIALE

Prendi e porta a casa: le missioni sample-return

Dalle missioni Apollo a Hayabusa2, passando per Chang’e-5 e Osiris-Rex: sono moltissime le missioni spaziali che hanno riportato a Terra materiale extraterrestre. Ne parliamo con Andrea Longobardo dell’Inaf Iaps di Roma, editor del volume “Sample Return Missions: The Last Frontier of Solar System Exploration”, appena pubblicato da Elsevier

     31/05/2021

La copertina di Sample Return Missions – The Last Frontier of Solar System Exploration, curato da Andrea Longobardo per Elsevier

Sample Return Missions: The Last Frontier of Solar System Exploration è il titolo di un libro di recente uscita prodotto dall’editore accademico Elsevier. Il titolo parla da sé: l’argomento principale è quello delle missioni sample-return, ossia quelle che puntano a raccogliere materiale dallo spazio (perlopiù da altre superfici planetarie) e riportarlo a Terra, dove può essere studiato tramite tecniche e strumenti molto più sofisticati di quelli che si potrebbero usare in loco. Il libro è stato curato da Andrea Longobardo, ricercatore dell’Istituto di astrofisica e planetologia spaziali dell’Inaf di Roma.

Innanzitutto, dottor Longobardo, cosa distingue una missione sample-return dalle altre missioni spaziali? Perché sono così importanti?

«Ci portano per sempre i corpi planetari a terra! L’analisi di un campione planetario in situ (ovvero nel suo ambiente) è importantissima, ma ha le limitazioni tipiche delle missioni spaziali: va fatta una selezione di strumenti e, quindi, di tecniche da utilizzare (un po’ come quando scegliamo i vestiti prima di partire per un viaggio), e le analisi si svolgono ovviamente solo durante la missione. Avere un campione a terra ci consente invece di applicare una vasta gamma di tecniche di analisi, perché non abbiamo scadenze temporali, e quindi di usufruire anche di tecniche via via più efficienti man mano che queste vengono sviluppate».

Le prime vere e proprie sample-return sono le missioni Apollo… ma dopo di quelle quali sono state le più importanti?

«Ognuno sceglie la più importante sulla base di considerazioni soggettive. Ogni missione è importante a suo modo e ognuna ha un suo primato. Apollo ha portato l’uomo sulla Luna, le contemporanee missioni sovietiche Luna sono state le prime a fare un campionamento robotico. Le americane Genesis e Stardust sono state le prime a portare a terra particelle di vento solare e polvere cometaria, rispettivamente. La giapponese Hayabusa è stata la prima a prelevare un campione asteroidale, mentre Osiris-Rex e Hayabusa2 portano campioni di asteroidi più primitivi, quindi in grado di dare maggiori informazioni sul Sistema solare primordiale. Infine, Chang’e-5 è il primo sample return cinese. E aspettiamo il primo sample return da Marte…».

Andrea Longobardo. Crediti: Patrizia Galliano/Media Inaf

Lei ha avuto la possibilità di avere a che fare con una missione di questo tipo?

«Ho partecipato agli studi di missione per MarcoPolo e MarcoPolo-R che puntavano a un sample return asteroidale. Al momento collaboro con il team di Hayabusa2 e sulla pianificazione di missioni future. Ho inoltre partecipato al progetto Euro-Cares, il cui obiettivo è gettare le basi per un sample return europeo: al momento l’Europa non ha lanciato una missione di questo tipo, e speriamo possa porvi rimedio al più presto».

Si tratta di missioni piuttosto complesse dal punto di vista ingegneristico, quindi il gioco deve valere la candela: cosa possiamo imparare grazie ai campioni di una missione sample-return?

«Possiamo imparare tanto. Dalla datazione dei campioni (e quindi capire le età del corpo/regione da cui provengono) alla loro composizione a piccola scala, spesso legata all’evoluzione del loro corpo progenitore. Le missioni Apollo e Luna ci hanno permesso di decifrare la storia del nostro satellite, Genesis ci ha fatto comprendere i processi nell’ambiente solare, mentre Stardust ci ha aperto un mondo sull’evoluzione delle comete. E i campioni asteroidali sicuramente avranno tanto altro da dirci».
E rispetto allo studio delle meteoriti? Perché non si possono ottenere le stesse informazioni?

«Lo studio delle meteoriti è fondamentale per la comprensione del Sistema solare. Rispetto ai campioni riportati a terra dalle sample return, abbiamo però due problemi. Il primo è che capire la loro provenienza non è immediato. L’altro è che le meteoriti sono contaminate dall’ambiente terrestre sia durante il loro ingresso in atmosfera (dove sono riscaldate ad alte temperature), sia durante la loro permanenza a terra, dove sono alterate da sale, acqua e ossigeno. La differenza tra meteorite e campione ritornato è come quella tra un fiammifero spento e uno che non è mai stato acceso: nel primo caso puoi dedurre come era prima di essere acceso, nel secondo caso lo hai a disposizione».

Se avesse la possibilità di scegliere il prossimo obiettivo per una missione sample-return, quale sarebbe?

«La comunità planetologica ovviamente punta a Marte, i cui campioni possono darci informazioni sull’abitabilità del pianeta (e per questo dovranno avere, una volta portati a terra, un trattamento particolare): la missione Mars 2020 ed il rover Perseverance sono stati il primo passo in tal senso. Personalmente, mi piacerebbe anche un ritorno di campione di superficie cometaria: anche una missione del genere sarebbe complicata, in quanto bisognerebbe portare un campione ghiacciato senza alterarlo».

E com’è stata l’esperienza di curare il libro su queste missioni?

«Direi istruttiva e stimolante. Anche faticosa, ma questo va in secondo piano rispetto alle prime due…»