COME LE COMETE, CONTRIBUISCE ALLA FORMAZIONE DELLA POLVERE INTERPLANETARIA

Bennu turbolento, soprattutto al pomeriggio

Le riviste “Journal of Geophysical Research: Planets” ed “Earth and Space Science” dedicano due speciali alla missione spaziale Osiris-Rex. L’oggetto degli articoli è l’inattesa attività dell’asteroide obiettivo della missione, Bennu: emette 10 kg di particelle per orbita. In attesa della raccolta di materiale dalla superficie dell’asteroide, in calendario per fine ottobre, ne parliamo con uno degli autori degli speciali, Maurizio Pajola dell’Inaf di Padova

     10/09/2020

Immagine di Bennu ripreso il 6 gennaio 2019 dalla NavCam 1 di Osiris-Rex mentre emette particelle dalla superficie. Crediti: Nasa/Goddard/University of Arizona/Lockheed Martin

L’asteroide perfetto per la raccolta e il trasporto di materiale a Terra si chiama Bennu: un Near-Earth Asteroid (Nea) carbonaceo del diametro di circa 500 metri, classificato dagli scienziati come inattivo e polveroso, con un ridotto numero di corpi rocciosi superficiali che lo renderebbero inospitale per l’atterraggio. Sono queste le caratteristiche che ne hanno fatto il target prescelto per Osiris-Rex, la missione New Frontier della Nasa partita l’8 settembre 2016 per raccogliere almeno 60 grammi di regolite dalla superficie dell’asteroide.

Si dice che la prima impressione è quella che conta, ma la scienza spesso dimostra il contrario. Le prime immagini ravvicinate di Bennu, nel dicembre 2018, hanno infatti rivelato un panorama inatteso: la sua superficie, tutt’altro che polverosa, è costellata di rocce di varie dimensioni che rendono l’atterraggio e la raccolta dei campioni operazioni più complesse del previsto. La scelta del sito di atterraggio è ricaduta, in modo quasi obbligato, nel piccolo cratere di 20 metri di diametro Nightingale – inglese per usignolo –, situato nell’emisfero settentrionale.

Il 31 dicembre 2018 Osiris-Rex è entrato in orbita attorno all’asteroide. A pochissimi giorni di distanza, il 6 gennaio 2019, una seconda sorpresa: centinaia di grani di polvere e roccia, con dimensioni che vanno dai millimetri ai centimetri, venivano eiettati dalla superficie.

«È stata una scoperta casuale, avvenuta grazie alle immagini prese dalla fotocamera di navigazione (NavCam 1), la quale stava semplicemente scattando foto ad ampio campo per scopi di navigazione ottica – come identificare stelle di campo e comprendere come la sonda fosse orientata nello spazio», spiega Maurizio Pajola, ricercatore all’Inaf di Padova e coautore di uno degli articoli pubblicati ieri nelle special issues delle riviste Journal of Geophysical Research: Planets ed Earth and Space Science dedicate alla missione spaziale Osiris-Rex. Le pubblicazioni contenute nello speciale presentano i risultati dei dati raccolti sulle particelle emesse dalla loro prima identificazione fino a novembre 2019.

Per ragioni di sicurezza, il team ha subito deciso di effettuare sequenze di osservazioni del limbo dell’asteroide – il suo bordo, sopra il quale si riescono a osservare, per contrasto con il cielo nero sullo sfondo, i grani chiari di polvere e roccia eiettati dalla superficie – con lo scopo di vedere se gli sbuffi di polvere fossero ripetuti, e comprendere se l’energia e la massa rilasciata potessero danneggiare la sonda spaziale. In dieci mesi di monitoraggio, durante i quali Bennu ha coperto la distanza tra il suo perielio e l’afelio (situati rispettivamente a 0.9 e 1.36 unità astronomiche dal Sole), sono stati rivelati 18 eventi di espulsione multipla di particelle, con masse che hanno raggiunto le centinaia di grammi, e molte singole emissioni. L’evento più massivo è stato proprio il primo, quello del 6 gennaio 2019, che ha contato l’eiezione di circa 200 particelle.

«Questa attività ha fatto entrare Bennu di diritto nella famiglia degli asteroidi “attivi”, e inoltre esso è il primo, fra questi, a poter essere osservato in dettaglio», dice Pajola. «L’aspetto interessante di questa scoperta è che Bennu non è mai stato visto in attività tramite osservazioni terrestri – proprio per questo era stato considerato un target ingegneristicamente sicuro per raccogliervi dei campioni – e la ragione è che l’attività identificata da Osiris-Rex è ordini di grandezza inferiore rispetto a quella identificata su altri asteroidi “attivi”».

All’identificazione delle particelle eiettate è seguita la misura delle loro magnitudini assolute, masse, diametri e delle principali proprietà fisiche, e infine la caratterizzazione delle orbite seguite.

La fotometria dei 18 eventi di emissione multipla è il principale oggetto dello studio guidato da Carl Hergenrother, del quale Pajola è fra i coautori. Con una procedura del tutto simile a quella utilizzata per l’analisi delle comete, gli scienziati hanno integrato il flusso di luce lungo la strisciata prodotta nelle immagini dalle particelle emesse, e tramite opportune assunzioni circa le proprietà di riflessione delle particelle, la loro risposta in termini di illuminazione al variare dell’angolo di fase e la composizione dei grani, hanno potuto ricavare la magnitudine assoluta dei grani. Le magnitudini assolute delle particelle sono state infine convertite in diametri espressi in centimetri.

«Abbiamo calcolato le distribuzioni cumulate della taglia delle particelle e abbiamo osservato che sulla superficie di Bennu vi è una grande scarsità di particelle “piccole”, inferiori al centimetro di diametro», continua Pajola. «Ciò significa che su Bennu avvengono fenomeni che causano l’eliminazione e l’esaurimento di queste: o la fratturazione causata da stress termici non produce materiale fine, oppure vi è un potenziale fenomeno di levitazione elettrostatica che li rimuove. Altri processi possibili sono attualmente caso di studio».

Le strisciate prodotte sulle immagini dal moto delle particelle emesse forniscono anche importanti informazioni circa la velocità di emissione e, considerando la distanza dalla superficie dell’asteroide e la massa dei grani, l’energia di eiezione. Ma che fine fanno questi sbuffi di particelle che si alzano dalla superficie di Bennu?

«Uno dei risultati fondamentali degli studi condotti e pubblicati in questo speciale è che circa il 30 per cento di tutta la massa osservata scappa definitivamente da Bennu, entrando in orbita eliocentrica», spiega Pajola. «La maggior parte delle particelle eiettate invece cade di nuovo sulla superficie dell’asteroide subito dopo l’espulsione – alcune ad esempio sono state viste rimbalzare sulla superficie. Le particelle sopravvissute più a lungo in vicinanza della superficie hanno orbitato Bennu fino a un massimo di sei giorni. Gli eventi di eiezione avvengono preferibilmente a basse latitudini e tipicamente (ma non solo) nel pomeriggio. Il riaccumulo di materiale eiettato in prossimità dell’equatore favorisce il riempimento dei crateri situati a queste latitudini e contribuisce alla crescita del rigonfiamento equatoriale di Bennu».

Bennu non è l’unico oggetto della categoria con una simile conformazione superficiale. La scarsità di polvere sulla superficie è stata osservata anche sull’asteroide Ryugu, il target della missione Hayabusa 2, anch’esso asteroide Nea costituito da materiale carbonaceo. Secondo gli esperti, questo potrebbe indicare che il fenomeno di esaurimento delle particelle piccole è comune a molti Nea. Grazie a questo studio, si stima che Bennu eietti fino a 10 kg di particelle per orbita, affiancando l’asteroide Phaethon – molto più attivo di Bennu – tra i corpi contribuenti alla formazione di polvere interplanetaria, e mostrando che ciò non è solo prerogativa delle comete, come ritenuto in passato.

L’appuntamento è per il 20 ottobre 2020 con il primo tentativo di raccolta dei campioni sulla superficie di Bennu. Osiris-Rex verificherà la massa totale delle particelle raccolte operando dei moti di rotazione attorno al proprio asse, e riporterà i campioni sulla Terra il 24 settembre 2023.

Per saperne di più:

  • Leggi lo speciale su Journal of Geophysical Research: Planets

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