DA VALENTINA TERESHKOVA A SAMANTHA CRISTOFORETTI

Spazio ad astronaute e cosmonaute

Si celebra domani la ricorrenza del primo viaggio spaziale di una donna, la cosmonauta sovietica Valentina Vladimirovna “Valya” Tereshkova, avvenuto il 16 giugno 1963 a bordo della capsula Vostok 6. Da allora circa una sessantina di donne sono andate nello spazio. Un numero ben lontano dalla parità con i colleghi maschi. Ne scrive oggi su Media Inaf Roberto Della Ceca, responsabile dell’Unità per la gestione dei progetti spaziali dell’Inaf

     15/06/2020

A sinistra, Valentina Tereshkova. A destra, la prima pagina de “Il Tempo” sul lancio nello spazio della cosmonauta

Sono circa una sessantina le astronaute (o cosmonaute in Russia, taikonaute in Cina…) volate per lo spazio, circa il 10 per cento del totale dei viaggiatori “spaziali” fino a ora. Circa il 75 per cento di loro sono di nazionalità americana, le rimanenti sovietiche/russe, europee e cinesi.  Purtroppo ci sono anche quattro astronaute decedute, a seguito dei due tragici incidenti degli shuttle Challenger nel 1986 (Judith Resnik e Christa McAuliffe) e Columbia nel 2003 (Kalpana Chawla e Laurel Blair Salton Clark).

Voglio ricordarle tutte in occasione della ricorrenza del primo viaggio spaziale di una donna, la cosmonauta sovietica Valentina Vladimirovna “Valya” Tereshkova, avvenuto il 16 giugno 1963 a bordo della capsula Vostok 6 – prima e ancora unica donna a compiere un viaggio spaziale in solitaria.

Valya nacque il 6 marzo 1937 a Maslennikovo, un villaggio vicino al fiume Volga a circa 277 chilometri a nord-est di Mosca. A causa di una situazione familiare disagiata (il padre era morto combattendo come carrista quando lei aveva solo due anni, lasciandola orfana  insieme a un fratello e a una sorella) ebbe un’infanzia piuttosto complicata e dovette “stringere i denti” per lavorare e riuscire  a diplomarsi come perito tecnico nel 1960.

Nel 1962, venne selezionata come cosmonauta, insieme ad altre quattro donne, partendo da un gruppo di circa 400 candidate che soddisfacevano determinati requisiti minimi: esperienze da paracadutista, nubili, età inferiore a 30 anni, statura inferiore a 170cm, peso inferiore a 70 kg. Ai requisiti minimi iniziali si aggiunsero, in fase di selezione finale, una “salute” perfetta sia dal punto di vista fisico che ideologico.

Come accaduto per Yuri Gagarin, fu probabilmente lo stesso Kruscev a indirizzare la scelta verso Tereshkova per il lancio del 1963: di origine proletaria, operaia, figlia di un eroe di guerra, comunista convinta, Tereshkova aveva tutti gli attributi per rappresentare un’icona per la Nuova donna sovietica (come poi in effetti diventerà…).

Il target “ufficiale” della missione era quello di compiere un rendezvous spaziale con la capsula Vostok 5, partita due giorni prima con a bordo il cosmonauta Valerij Fedorovic Bykovskij. Dimostrare sia l’alta affidabilità dei veicoli spaziali sovietici che la parità tra uomo e donna sotto il regime comunista era chiaramente la vera motivazione principale.

La capsula Vostok 6 in mostra allo Science Museum di Londra. Foto di Andrew Gray. Crediti: Wikimedia Commons

Le attività previste di avvicinamento con la Vostok 5 furono portate a termine con successo; le due capsule passarono periodicamente per brevi periodi fino a circa 5 km di distanza e i due cosmonauti furono in grado di comunicare tra di loro via radio. Il volo invece non fu altrettanto piacevole per Tereshkova: le era stato ordinato di rimanere legata al sedile, nella piccolissima navicella Vostok, con la tuta e il casco addosso, per tutte le 70 ore e 50 minuti di volo. Cominciò a soffrire il tipico “mal di spazio”, legato alla microgravità, con vertigini, nausea e perfino vomito, come raccontò lei stessa diversi anni dopo. Dal secondo giorno l’immobilità le causò un dolore alla gamba che divenne insopportabile verso la fine della missione. Credo che possiamo solo immaginare le condizioni miserevoli all’interno della tuta con il vomito e tutto il resto.

Alle 8:20 Ut  del 19 giugno, dopo 2 giorni, 22 ore e 50 minuti dal lancio e 49 orbite intorno alla Terra, Tereshkova atterrò con il suo seggiolino eiettabile a circa 620 km nordest della città di Karaganda, in Kazakistan. Venne subito rifocillata, ripulita, cambiata e riportata nel luogo di atterraggio della Vostok 6 pronta a esibire il suo miglior sorriso per le foto di rito; ed entrò nella storia. Pochi giorni dopo le vennero conferite le più alte onoreficenze, quali Pilota cosmonauta dell’Unione Sovietica, Ordine di Lenin ed Eroe dell’Unione Sovietica. Non volò mai più nello spazio anche se rimase (e credo lo sia tuttora) in prima linea nella vita del suo paese. Nessuna delle rimanenti quattro cosmonaute selezionate insieme a Tereshkova volò mai, e il gruppo venne infine sciolto alla fine degli anni ‘60.

Alle motivazioni di carattere propagandistico della missione, pienamente soddisfatte visto l’enorme impatto mediatico, politico e sociale riscosso, ne va probabilmente aggiunta una di carattere medico/fisiologico: tutti gli 11 astronauti uomini volati fino ad allora (5 dell’Urss e 6 degli Usa) erano stati anche “usati” come cavie al fine di controllare gli effetti fisici del volo spaziale – decollo in condizioni di forte spinta,  gravità ridotta, rientro a Terra – sul sistema cerebrale, respiratorio, digestivo, di circolazione del sangue e cosi via.  C’era però un effetto fisico che gli uomini non potevano provare: l’effetto sul sistema riproduttivo femminile. Nel 1964 Valya partorì Aljenka, frutto del matrimonio con il cosmonauta Andriyan Nikolayev, terzo uomo nello spazio. Aljenka fu ovviamente oggetto di notevole interesse medico negli anni che seguirono, in quanto era la prima figlia nata da genitori che erano stati entrambi nello spazio.

Un francobollo sovietico del 1983 raffigurante Leonid Popov, Svetlana Savitskaya e Aleksandr Serebrov.

Si seppe anni dopo che la condotta (sia fisica che mentale) tenuta da Tereshkova durante il volo non fu pienamente soddisfacente per i vertici sovietici. Bisogna tuttavia ricordare, a sua discolpa, che Tereshkova non era una pilota professionista ma una civile, e fu utilizzata dal regime comunista solo per pura propaganda. Questo mancato apprezzamento dei vertici sovietici spiega in parte perché passarono ben 19 anni prima che la seconda donna, la cosmonauta sovietica Svetlana Savitskaya, volasse a bordo della missione Soyuz T-7, il 19 agosto 1982. Paracadutista provetta, membro della squadra acrobatica dell’Unione Sovietica, pilota collaudatore, Savitskaya era chiaramente di un’altra pasta rispetto a Tereshkova, diventando la prima donna a volare due volte nello spazio (fu anche a bordo della Soyuz T-12 lanciata il 17 luglio 1984) e anche la prima donna a compiere un’attività extraveicolare, rimanendo a lavorare nello spazio aperto per oltre tre ore e mezza. È singolare notare che, nonostante l’Unione Sovietica sia stata la prima nazione a far volare una donna, sono solo quattro, fino a ora, le cosmonaute sovietiche ad aver volato nello spazio – chiaramente un atteggiamento sessista.

In alto, un articolo su un giornale dell’epoca riporta la protesta di Janey Hart – una delle “Mercury 13” – contro l’esclusione delle donne dalle imprese spaziali. In basso, una lettera del 1962 con la quale la Nasa respingeva la candidatura ad astronauta di una tale “miss Kelly” del Connecticut

Un simile atteggiamento sessista si respirava anche negli Stati Uniti agli inizi dell’era spaziale, come mostrato dalla vicenda delle cosiddette “Mercury 13”. Nel 1961 diverse decine di donne, pre-selezionate per età e ore di volo, furono segretamente sottoposte alle stesse fasi di selezione – test medici, psicologici e di simulazione spaziale – dei loro colleghi maschi. Tredici di loro (da qui il nome Mercury 13, in analogia al Mercury 7 con cui erano noti i primi 7 astronauti selezionati dalla Nasa) passarono pienamente i test, a volte con risultati superiori ai loro colleghi maschi. La Nasa non le accettò però mai come astronaute, questo nonostante le ottime credenziali di volo di alcune di loro, i risultati eccellenti dei test a cui furono sottoposte e un’interpellanza parlamentare contro la Nasa per discriminazione nella selezione degli astronauti. Semplicemente non era tempo e le donne non rientravano nei criteri di selezione della Nasa (così come non entravano i neri, gli ispanici e qualunque minoranza…). La possibilità alle donne di diventare astronaute fu concessa dalla Nasa solo a partire dal 1977.

D’altronde la famosa dichiarazione del presidente Kennedy nel 1961 – “I believe that this nation should commit itself to achieving the goal, before this decade is out, of landing a man on the moon and returning him safely to the earth” – impegnava solennemente gli Stati Uniti a mandare un uomo sulla luna prima della fine del decennio e riportarlo sano e salvo a Terra. Un uomo – e se possibile non di colore o ispanico o appartenente a minoranze…

La situazione attuale è molto cambiata e la partenza di una donna per lo spazio non fa quasi più notizia, chiaro segno che l’integrazione nel programma spaziale è oramai avvenuta. Purtroppo però i numeri non sono ancora paragonabili a quelli maschili. Alla Nasa le astronaute attive sono ora 10, circa il 29 per cento del totale Corpo astronauti (35 unità); percentuali inferiori sono registrate tra i “taikonauti” cinesi (22 per cento, 2 taikonaute su un totale di 9 unità) o dell’Agenzia spaziale europea (8 per cento, una sola astronauta, l’italiana Samantha Cristoforetti, su un totale di 13), mentre non ci sono al momento donne tra i 16 cosmonauti russi. Credo che ci sia ancora molto da fare, ma bisogna essere fiduciosi e continuare comunque a sensibilizzare l’opinione pubblica – e le giovani leve in particolare – verso questo tipo di carriera.

Concludo con una storia che ho sentito raccontare da Patrizia Caraveo. Sembra che un giornalista chiese a Janey Hart, una delle 13 donne appartenenti al gruppo Mercury 13, per quale motivo ci tenesse cosi tanto ad andare nello spazio. Hart rispose: “Se lei avesse otto figli non farebbe questa domanda”.