TEST IN CORSO NEI LABORATORI DEL “SACCO” DI MILANO

Disattivare il coronavirus con i raggi ultravioletti

I ricercatori delle sedi di Brera, Merate e Padova dell’Istituto nazionale di astrofisica, in collaborazione con il Dipartimento di fisiopatologia medico-chirurgica e trapianti dell'Università di Milano, stanno sviluppando e sperimentando dispositivi a raggi Uv per la disinfezione dell’aria e l’inattivazione del virus Sars-Cov-2. Ne parliamo con Alessio Zanutta, tecnologo dell’Inaf di Brera che si sta occupando della progettazione opto-meccanica di questi dispositivi

     24/04/2020

Alessio Zanutta, tecnologo dell’Istituto nazionale di astrofisica

In questo periodo di pandemia, le parole d’ordine che caratterizzano i tentativi di proteggersi, specialmente nella vita di tutti i giorni e specialmente fra le persone che di pandemia non hanno alcuna esperienza – escludiamo solo il personale sanitario, dunque – sono: disinfezione e prevenzione. Ci troviamo a ricevere e dispensare consigli e informazioni – si accettano le fonti più disparate e discutibili – a destra e a manca, ad amici e parenti, per non lasciare nulla di intentato: disinfettare qualunque cosa provenga dall’esterno ed entri in casa, comprese le borse della spesa, istituire delle “sale d’attesa” per i pacchi delle spedizioni online così che possano irradiarsi sotto il sole prima di entrare in casa, lavare qualunque elemento del vestiario venga utilizzato per uscire, esiliare dalla scarpiera l’unico paio di scarpe designato fin dall’inizio alle uscite, e così via. Tutto ciò senza dimenticare che è importante uscire di casa con guanti e mascherina, e trovare un modo per disinfettare quest’ultima se non si dispone di abbastanza rifornimento da permettersi di cambiarla dopo ogni utilizzo.

Ma quanti e quali di questi accorgimenti per la disinfezione sono davvero efficaci? A queste domande, naturalmente, si risponde con la scienza. Con esperimenti possibilmente certificati, attendibili e numeri precisi. Ne parliamo oggi con Alessio Zanutta, tecnologo dell’Inaf di Brera che lavora nella sede di Merate, in provincia di Lecco, dove di solito si occupa della progettazione e realizzazione di dispositivi ottici e opto-meccanici nell’ambito della strumentazione di telescopi da terra. Ma che da qualche settimana è coinvolto a tempo pieno in una nuova attività. «Il nostro progetto», dice a Media Inaf, «è di trovare nuove strategie tecnologiche e applicare quelle utilizzate per le ricerche astronomiche, soprattutto in ambito ottico e di utilizzo della radiazione elettromagnetica, per la lotta al virus».

Cosa c’entrano astrofisica e telescopi, con il virus Sars-Cov-2?

«Collaborare fra scienziati, scambiarsi opinioni e idee a volte è molto più efficace che cercare di utilizzare sempre le solite strategie, e può fare venire quell’idea in più per portare le conoscenze ad un livello successivo. Il nostro è un laboratorio che si occupa di meccanica, ottica, chimica, fisica ed elettronica per sostenere le indagini astronomiche, ma le nostre tecnologie possono avere importanti ricadute anche in altri settori. Per esempio, abbiamo già collaborato in passato con altre aziende in ambito dell’industria automotiva, in ambito di realtà aumentata, sfruttando le nostre expertise di ottica e di applicazione della radiazione elettromagnetica. Insomma, abbiamo l’esperienza e la competenza specifica e avanzata per applicare le nostre tecnologie in altri ambiti, come peraltro prevede lo statuto Inaf nell’ambito della così detta “terza missione”, molto importante per un ente di ricerca come il nostro. Ora, in particolare, stiamo sviluppando nuove idee per la lotta al virus in termini di disinfezione».

In che modo? 

«Innanzitutto conducendo studi mirati per capire come si comporta e quali sono in punti deboli di questo virus se sottoposto a irraggiamento. Parliamo soprattutto dei raggi ultravioletti, e ci chiediamo se essi siano efficaci a inattivarlo, a quali lunghezze d’onda, quanto tempo di esposizione occorre, e quali dosi. Mentre vi è un’ampia letteratura su come i raggi Uv – soprattutto quelli più energetici (i così detti raggi Uv-C) – abbiano effetti igienizzanti efficaci anche sui virus, attualmente mancano informazioni specifiche sulle dosi necessarie per annientare specificamente il virus Sars-Cov-2 responsabile dell’attuale pandemia. Queste informazioni in bibliografia mancano in questo momento, vuoi perché il virus è nuovo, vuoi perché le analogie con altri tipi di virus sono labili. Dopo aver raccolto tutti i dati necessari, miriamo a sviluppare dei dispositivi utili alla disinfezione. Inoltre, ci sembra particolarmente interessante l’idea che anche i raggi meno energetici, quelli emessi dal Sole e che non sono assorbiti dall’atmosfera, possano avere un effetto disinfettante, con importanti conseguenze epidemiologiche e con informazioni interessanti per gestire la così detta “Fase 2” in ritorno dal lockdown. In estate potrebbe esserci un calo dei contagi anche grazie a una maggiore illuminazione da parte del Sole».

Qualche esempio pratico?

«Ci stiamo muovendo principalmente su due fronti, al momento. Vogliamo proporre degli sterilizzatori che vanno a sanificare l’aria espirata dal paziente, utili alla disinfezione di ambienti piccoli. Pensiamo per esempio a un’ambulanza che trasporta un paziente, che naturalmente espira in questo piccolo furgoncino ed espone a un elevato rischio di contaminazione medici, paramedici, infermieri. Quindi abbiamo immaginato un dispositivo che, tramite radiazione Uv, possa istantaneamente disinfettare il fiato espirato dal paziente e impedire un accumulo di virus in ambienti piccoli. Può essere applicato anche alle stanze d’ospedale o altri piccoli ambienti».

Come funziona?

«Si tratta di un filtro che andrebbe a sostituire quelli che vengono impiegati attualmente nelle terapie intensive, o per esempio nelle ambulanze, a valle di una mascherina di ossigeno, ma non solo: anche in alcuni degli apparecchi di ventilazione a cui è sottoposto un paziente in terapia intensiva, o durante un intervento chirurgico. Il paziente, come dicevo, respira l’ossigeno e quando espira espelle aria contaminata. Ogni respiro che facciamo, quasi uno al secondo – specialmente se una persona è malata e ha una respirazione più frequente – espelle quasi mezzo litro di aria contaminata. Quindi una quantità di gas contaminato importante, che va gestita e sterilizzata in modo efficace. Purtroppo, studi di letteratura mostrano come ambienti chiusi promuovano la diffusione del virus, soprattutto negli ospedali dove non si può arieggiare molto. Ora, per affrontare questo problema, vengono (non sempre) usati dei filtri con una membrana interna sulla quale si ferma il droplet contaminato. Solo che questi filtri si intasano e vanno cambiati dopo poche ore. Questo ha un costo, economico e ambientale, esorbitante. La nostra soluzione invece non necessita di sostituzioni: si basa su un dispositivo permanente che si autodisinfetta».

Quindi è anche una soluzione anti spreco in ambiente ospedaliero?

 «Sì, per evitare che contaminino l’aria dei locali dove sono ospitati. La disinfezione dell’aria è un punto cruciale per evitare la contaminazione. Questa è una strategia a monte per combattere la contaminazione ed il contagio, diversamente dai filtri che vengono applicati per la disinfezione degli ambienti o che vengono applicati agli impianti di areazione degli ospedali. Ma ci stiamo muovendo anche per applicare la tecnologia di disinfezione Uv per sanificare oggetti di uso comune, come ad esempio gli smartphone e il denaro contante».

Un banco ottico all’interno della camera pulita dell’Inaf a Merate (LC). Crediti: Matteo Aliverti

Cioè?

«Immaginando di applicare conoscenze sicure e verificate – in termini, appunto, di lunghezze d’onda, dosi, tempistiche e così via – si possono costruire dispositivi che vanno con sicurezza a eliminare la contaminazione in uno dei canali più critici, quali appunto soldi e banconote».

Gli studi sull’interazione tra il virus e la radiazione ultravioletta li avete condotti voi?

«Per ora ci stiamo aggiornando sui più recenti studi in letteratura che indagano l’interazione Uv con patogeni. Questo per fare delle previsioni più corrette possibile e stilare procedure sensate per i test. Grazie alla collaborazione con l’Università degli studi di Milano, in particolare con il laboratorio del Dipartimento di fisiopatologia medico-chirurgica e trapianti dell’Università di Milano, che opera con i propri laboratori anche all’Ospedale “Luigi Sacco”, possiamo avere accesso al virus Sars-Cov-2».

Vuol dire che maneggiate direttamente il virus?

«No, no, noi non maneggiamo il virus: portiamo gli strumenti e le tecnologie per fare i test, secondo un protocollo da noi proposto, nei laboratori del Sacco. Il responsabile del laboratorio è il professor Mario Clerici, e collaboriamo con le professoresse Mara Biasin e Daria Trabattoni. Loro sono abilitati e hanno tutte le attrezzature specifiche per trattare, coltivare e caratterizzare il virus vivo in ambienti protetti e adeguati. Studi cruciali per capire le dosi di illuminazione Uv necessarie per inattivare efficacemente e in sicurezza questo nuovo virus».

Cos’ha di nuovo la vostra tecnologia rispetto a quello che viene già oggi utilizzato per sanificare?

«Non è una nuova tecnologia di per sé, ma siccome mancano degli studi mirati per questo virus, non si è ancora compreso quale sia la strategia più veloce, pratica ed efficace per inattivarlo. Noi cerchiamo di realizzare, grazie ai test di cui abbiamo parlato in precedenza, strumenti e dispositivi di semplice implementazione basati su metodi ottici che possano essere certificati e dare garanzia di sterilizzazione – ad esempio al 99.9 per cento – di questo patogeno. Questo è importantissimo in ambito medico, dove si ha bisogno di sicurezze, e non si vogliono correre ulteriori rischi. È un po’ la stessa cosa delle mascherine: molte sono prodotte un po’ artigianalmente, senza un corredo di dati che ne certifichi la funzionalità. Ai fini della sicurezza e della salute sul lavoro, i medici hanno l’esigenza di usare dispositivi certificati, con un livello percentuale di efficacia adeguato».

Per quanto riguarda gli oggetti, non c’è una criticità dovuta al bisogno di esposizione superficiale uniforme? La presenza di zone d’ombra, per esempio, non compromette la sterilizzazione?

«Certamente, questo è un problema, anche per le mascherine. Se illuminate con gli Uv si sterilizza solo la superficie, ma se la trama o lo spessore è intriso di virus non avverrà una sterilizzazione completa. Per questo ci sono delle tecnologie alternative e complementari. Fra queste, una soluzione sono ad esempio le microonde, che possono aiutare assieme all’Uv a sterilizzare all’interno. Le microonde non fanno altro che innalzare la temperatura delle particelle d’acqua – i famosi droplet, le goccioline di saliva che inumidiscono le mascherine e contengono il virus. Tutti sanno però che il forno a microonde scalda solo l’acqua e quindi non può funzionare con oggetti che non ne contengano».

E per tutti gli altri oggetti di uso comune, quindi?

«Ci sono altre strategie, ad esempio l’ozono, che è molto efficace anche in concentrazioni basse per sterilizzare. Inoltre, viene automaticamente prodotto da certe lampade Uv a lunghezze d’onda corte. Utilizzando una semplice lampada Uv della frequenza giusta si può quindi produrre ozono, e questo ulteriormente aiuta la sterilizzazione nelle zone d’ombra, che sono appunto critiche.

Le attività che state svolgendo dunque avvengono prevalentemente nel vostro istituto e nei laboratori del Sacco. Il lockdown vi sta creando problemi, per le attività e gli spostamenti?

«Una parte importante del lavoro – direi il 50 per cento – ancora in corso concerne conti e simulazioni, e questo porta via molto tempo. Inoltre, per impostare i test presso i laboratori dell’Università di Milano all’Ospedale Sacco, c’è bisogno di un paio di settimane per preparare i campioni e far crescere il virus. Poi dobbiamo andare al laboratorio a montare la strumentazione, le lampade, creare il setup per l’esperimento in sicurezza, definire su carta le istruzioni circa i passaggi da eseguire. La precisione nella preparazione è importantissima perché i test vanno effettuati una sola volta, non abbiamo seconde possibilità di effettuarli se non ricominciando da capo e aspettando altre due settimane. Non possiamo sprecare tempo raccogliendo dati inutili. A questo si aggiungono i tempi di approvvigionamento dei substrati e dei reagenti chimici, che adesso sono un po’ problematici, dato che il lockdown ha pregiudicato l’immediatezza dei recapiti di materiale, e c’è anche una carenza dei materiali da laboratorio per esperimenti biochimici».

Avete avuto dei permessi speciali per recarvi in osservatorio e in laboratorio?

 «Sia per andare al Sacco che nei nostri laboratori a Merate abbiamo l’autocertificazione e un permesso del direttore dell’Osservatorio di Brera. Noi cerchiamo di andare in laboratorio uno per volta, cerchiamo di sincronizzarci. In osservatorio comunque, la compresenza è necessaria per motivi di sicurezza. Il direttore è sempre presente, così come una persona in portineria, entrambi in zone diverse. Quindi non siamo mai soli, ma riusciamo a mantenere le distanze sociali lavorando separati fisicamente gli uni dagli altri».

Concretamente, a che punto siete? Avete realizzato qualche strumento?

 «A Merate, abbiamo già costruito i primi prototipi di lampade sterilizzanti impiegando sorgenti Uv calibrate per una sterilizzazione efficace. Ora procederemo a testarne l’incisività. Nei laboratori dell’Università di Milano, al Sacco, hanno già cominciato con la coltura per far crescere i virus per procedere con le verifiche di dosaggio Uv. Al massimo la prossima settimana partiremo con i test. Ci vorrà una settimana per fare tutte le esposizioni e poi dovremo analizzare i risultati».

Lei in particolare quali aspetti segue?

«La progettazione opto-meccanica. La definizione delle specifiche e delle caratteristiche del dispositivo, la pianificazione dei test, la simulazione dei risultati e la traduzione di questi nella realizzazione pratica del dispositivo. Come tecnologo, mi occupo della realizzazione pratica oltre che della progettazione. Naturalmente, al momento, dobbiamo realizzare prototipi in modo un po’ casalingo e artigianale, utilizzando stampanti 3D ed elettronica fatta in piccoli laboratori, anche usando componenti smontati e riciclati».

Una stima dei costi per il dispositivo sterilizzatore?

«A questo non so rispondere, noi cerchiamo sempre di tenere in mente che deve essere a minor costo possibile, proprio perché i nostri dispositivi sono molto semplici, si basano su tecnologie ottiche e non necessitano di manutenzioni. C’è da dire che adesso per la disinfezione dell’aria in espirazione si utilizzano filtri che durano 6-12 ore e vengono poi buttati, con una gestione poco economica per i rifiuti contaminanti. Ci sono costi di smaltimento e riciclo che vanno considerati quando si fa il bilancio di un dispositivo che invece dura molto di più, disinfetta l’aria e si auto-disinfetta. Inoltre, come abbiamo visto per le mascherine, durante le emergenze l’approvvigionamento dei ricambi può essere molto problematico».

Quali sono i tempi di realizzazione previsti? 

«La variabile principale è che noi, in quanto ente di ricerca, abbiamo bisogno di partner in ambiente sanitario e collaborazioni industriali per poter arrivare, partendo dai nostri prototipi, a un’applicazione e una produzione low-cost su larga scala. Da parte nostra possiamo arrivare al punto di costruire qualcosa che funziona, certificarlo e garantirlo, ma poi dovremo affidarci a terzi per la produzione vera e propria. Per questo, con l’aiuto dell’Inaf, ci metteremo in contatto con sanitari e aziende per rendere la nostra tecnologia fruibile dalla comunità. Parlando di tempistiche, penso che in un mese avremo qualche risultato: stiamo lavorando senza sosta, e siamo già a buon punto».