DAL NOSTRO VICINATO GALATTICO ALLA STORIA DELL’UNIVERSO

Esplorare da vicino, esplorare da lontano

Il Nobel per la fisica ha voluto premiare la nuova comprensione dell’universo, passando dalla cosmologia allo studio dei pianeti extrasolari. Con il consenso dell’autrice, l’astrofisica dell’Inaf Patrizia Caraveo, vi riproponiamo questo articolo pubblicato domenica sul Sole 24 Ore

     21/10/2019

Quest’anno il Comitato Nobel, nell’assegnare il premio per la fisica, ha voluto premiare “la nuova comprensione della struttura e della storia dell’universo e la prima scoperta di un pianeta in orbita attorno a una stella di tipo solare al di fuori del nostro sistema solare. Le scoperte hanno cambiato per sempre le nostre concezioni del mondo”.

A prima vista, si tratta di campi diversi che studiano fenomeni su scale diversissime: si passa dalla cosmologia (che studia l’estremamente lontano nello spazio e nel tempo) ai pianeti extrasolari (che sono a pochi anni luce da noi, nel nostro giardinetto galattico).

Cominciamo dall’inizio dell’universo con la metà del premio a James Peebles, cosmologo di Princeton oggi 84enne. Un distinto signore che, a mio modesto parere, il premio Nobel avrebbe dovuto riceverlo anni fa. Peebles ha costruito l’impianto teorico che ha portato a tre Nobel di tipo osservativo: nel 1978, per la scoperta del fondo a micronde, nel 2006 per la misure delle sue piccolissime fluttuazioni, i semi dai quali nasceranno le galassie, e nel 2011 per l’espansione accelerata dell’universo, a riprova che la materia visibile, quella che possiamo studiare, è solo una parte piccola dell’universo, la maggior parte del quale è fatto di materia ed energia ancora misteriose. Meno male che, dopo tanti anni, è venuto il suo turno.

L’altra metà del premio viene divisa tra i due scopritori del primo esopianeta in orbita intorno alla stella 51 Peg, una stella simile al Sole a una cinquantina di anni luce da noi.

È un esempio di premio Nobel attribuito a una coppia professore-studente, perché si tratta della tesi di dottorato di Didier Queloz che lavorava sotto la supervisione di Michel Mayor, professore all’Università di Ginevra. Mayor dà al suo dottorando una mission impossible: costruire un sistema che possa permettere di misurare le piccolissime fluttuazioni nella luce di una stella indotte dal disturbo di un pianeta in orbita intorno ad essa.

Queloz si mette al lavoro senza grandi speranze di ottenere un risultato. Inaspettatamente, vede qualcosa, ma teme di avere fatto un errore. Ci vogliono mesi perché abbia il coraggio di dirlo al suo professore che gli risponde “sì, forse…”. I due lavoreranno insieme per convincersi della realtà dell’effetto, che è veramente strabiliante, perché punta alla presenza di un pianeta più massivo di Giove che percorre la sua orbita in soli quattro giorni, quindi è vicinissimo a 51 Peg.

Nessuno si sarebbe mai aspettato di trovare un pianeta simile a Giove così vicino alla sua stella, ma la natura è piena di sorprese e il campo dei pianeti extrasolari, che è stato aperto da questi due svizzeri fantasticamente bravi a fare misure precisissime, ce ne ha rivelate moltissime.

A partire dall’annuncio, fatto il 6 ottobre 1995 a Firenze, il campo dei pianeti extrasolari è letteralmente esploso. Adesso ne conosciamo oltre 4000 e sappiamo che ne esistono diversi con massa simile a quella della Terra che orbitano nella zona di abitabilità della stella, dove la temperatura del pianeta dovrebbe essere tale da permettere la presenza di acqua liquida in superficie. Giustissimo, quindi, riconoscere il contributo di Michel Mayor, oggi un 77enne in piena attività, e di Dider Queloz, un rampante cinquantenne che vive tra Ginevra e Cambridge.

Mi piace notare che la scelta di premiare insieme l’universo primordiale e i sistemi planetari sottolinea la visione unitaria della ricerca astronomica. Quello che succede nel nostro vicinato galattico dipende dalla storia dell’universo e non si può capire la nascita dei pianeti senza avere chiara la formazione degli elementi dei quali sono fatti. Per costruire i pianeti ci vogliono generazioni di stelle che trasformino l’idrogeno e l’elio primordiali in carbonio, ossigeno, azoto e via via fino agli elementi più pensati.

È una storia affascinante che era stata raccontata ne I marziani siamo noi, un libro scritto una decina di anni fa da mio marito Giovanni Bignami dove si ripercorreva la storia dell’universo dal suo inizio fino alla formazione dei pianeti e alla ricerca della vita. In dieci anni sono successe molte cose e il libro andava aggiornato per includere le nuove scoperte, specialmente nel campo dell’esplorazione del sistema solare e degli esopianeti. Per una coincidenza cosmica, la nuova edizione è andata in libreria in contemporanea con l’annuncio dei premi Nobel.