UN SUPER ACCELERATORE LEPTO-ADRONICO COSMICO

Alle origini del neutrino extragalattico

A distanza di un anno dall’annuncio della rivelazione del primo neutrino extragalattico associato a un’osservazione elettromagnetica, un team guidato da Shan Gao propone, su Nature Astronomy, una descrizione del processo che potrebbe aver dato luogo al fenomeno. Ne parliamo con Elena Pian, astrofisica all’Inaf di Bologna

     05/11/2018

Elena Pian, dirigente di ricerca all’Inaf di Bologna

Fra l’agosto e il settembre del 2017, come direbbe Virginia Woolf, l’astronomia è cambiata. Nell’arco di 36 giorni sono stati osservati due eventi che hanno inaugurato, il primo, e sancito, il secondo, la nascita di quella che viene oggi chiamata – con espressione un po’ goffa, per quanto approvata dalla Cruscaastronomia multimessaggera: la coppia onde gravitazionali e onde elettromagnetiche nel caso di Gw170817, l’evento del 17 agosto; e la coppia neutrino e fotoni (dunque, di nuovo, onde elettromagnetiche) nel caso di Ic170922A, l’evento del 22 settembre.

Molto bene, molto bello, ma… cosa genera queste coppie di messaggeri? Per Gw170817 fu relativamente semplice stabilire che dovevano essere due stelle di neutroni, e si ebbe da subito anche una stima precisa della loro massa. Nel caso dell’evento Ic170922A, invece, le cose sono più complesse. Si è capito abbastanza in fretta da dove veniva il neutrino – dal blazar Txs 0506+056 – e, grazie alle osservazioni di un team guidato da Simona Paiano dell’Inaf di Padova, anche quanta strada aveva percorso: il redshift della sorgente era pari a 0.3365, che tradotto in distanze indica – a seconda del modello adottato – un valore compreso fra i 3 e i 5.5 miliardi di anni luce. Ma quale processo fisico vi sia all’origine non è affatto chiaro.

Perché? Quando sono in gioco le onde gravitazionali, l’indizio chiave è la massa, e una volta determinato che le masse dei “colpevoli” sono poco superiori a quella del Sole, l’elenco dei sospetti si assottiglia parecchio: trattandosi di oggetti ultra-compatti, non possono essere altro che stelle di neutroni. Nel caso del neutrino, invece, l’indizio è anzitutto l’energia. Un’energia mostruosa: quello intercettato arrivava a 290 TeV. Non che siano molti, i processi in grado di sparare una particella da miliardi di anni luce di distanza e con quell’energia. Ma ci sono alcune complicazioni. Per esempio, i sospetti hanno un ottimo “alibi”: a scagionarli – almeno in parte – ci sono i dati dell’osservazione elettromagnetica, l’altra metà della coppia, incompatibili con molti processi ipotizzati per il super-neutrino.

Non c’è dunque da stupirsi se solo oggi, a distanza di oltre un anno dalla scoperta, arriva sulle pagine di Nature Astronomy – firmata da un team guidato da Shan Gao del Deutsches Elektronen-Synchrotron (Desy) tedesco – una ricostruzione completa di cosa potrebbe essere accaduto (vedi schema nel tweet di Nature Astronomy in fondo a questa pagina). Una ricostruzione importante, al punto che la rivista ha commissionato a un’esperta dell’argomento un articolo di presentazione e commento – una cosiddetta News & Views – per meglio contestualizzare il paper scientifico. L’esperta alla quale gli editors si sono rivolti è una scienziata dell’Istituto nazionale di astrofisica, Elena Pian, dirigente di ricerca all’Osservatorio di astrofisica e scienza dello spazio di Bologna, e Media Inaf l’ha intervistata.

Qual è lo scenario tracciato dal team guidato da Shan Gao?

«Shan Gao e collaboratori partono dal presupposto che i meccanismi di radiazione all’opera nel blazar Txs 0506+056 devono essere almeno due: la distribuzione spettrale di energia dal radio al gamma infatti è descritta in modo molto soddisfacente da radiazione non termica da un plasma di composizione leptonica (cioè particelle leggere, elettroni e/o positroni). La rivelazione del neutrino di altissima energia, d’altra parte, implica che ci siano anche decadimenti di adroni (particelle pesanti: protoni, nuclei atomici, mesoni), perché solo questi possono produrre neutrini. In base alla correlazione osservata tra le curve di luce del blazar alle varie frequenze, Gao et al. propongono un modello in cui la componente adronica è “sotto-dominante” rispetto a quella leptonica e contribuisce alla produzione dei raggi X e TeV, oltre al neutrino».

Crediti: IceCube collaboration

La ritiene un’ipotesi convincente?

«In questa fase iniziale ed estremamente pionieristica di studio comparato di emissione elettromagnetica e neutrinica dei blazar, Gao et al. hanno fatto un tentativo ammirevole di unificare tutti gli elementi osservativi più importanti. Tra questi c’è il confronto della variabilità alle frequenze X, MeV-GeV e TeV. Dalle differenze osservate – l’emissione in raggi TeV cresce con notevole ritardo rispetto alle energie più basse – hanno concluso che i raggi TeV possono essere prodotti anche da una componente di radiazione adronica, poiché le particelle pesanti perdono energia più lentamente rispetto a quelle leggere. Ci sono tuttavia varie inconsistenze nel modello, ad esempio l’eccessiva energia totale necessaria per garantire un accordo completo con i dati. Sarà lo studio futuro di casi simili a fornire nuovi elementi. Questa proposta teorica di Gao et al. sottolinea l’importanza delle future osservazioni di blazar ad altissima energia con il Cherenkov Telescope Array, progetto in cui l’Inaf gioca un ruolo di primo piano».

In quest’occasione le è stato chiesto di scrivere una News & Views, un articolo di presentazione e commento. Ma lei, in quanto prima autrice di uno dei paper usciti all’epoca su Nature, è stata tra i protagonisti dell’altro evento, Gw170817, quello che ha inaugurato l’astronomia multimessaggera. Cosa ha pensato quando ha visto, a distanza di pochissime settimane, che – dopo le onde gravitazionali – arrivavano anche i neutrini extragalattici? Per decenni niente, poi improvvisamente una doppia svolta… è solo una coincidenza?

«Esistono momenti in cui l’astrofisica fa grandi progressi simultaneamente su molti fronti. Qualcosa di simile avvenne negli anni ’60, quando entro pochissimi anni vennero scoperti i quasar, le pulsar e la radiazione cosmica di fondo a microonde. Negli ultimi 20 anni, sia gli interferometri gravitazionali che i rivelatori di neutrini di altissima energia hanno proceduto a grandi passi nel miglioramento della sensibilità e nell’affinamento delle tecniche di rivelazione, sicché ci si poteva aspettare che avrebbero ottenuto i primi risultati ad epoche simili, ma sicuramente non entro poco più di un mese uno dall’altro! Questa è stata una circostanza imprevedibile e fortunatissima».

Ora cosa possiamo aspettarci, in questo gioco delle coppie astronomico? Ce n’è qualcun’altra che attendete al varco? Neutrini e onde gravitazionali insieme, per esempio? O tutt’e tre, con anche le onde elettromagnetiche, magari? 

«Uno scenario in cui tutti e tre i segnali potrebbero essere rivelati è quello in cui un merger di stelle di neutroni dà luogo a un segnale gravitazionale, a una “kilonova” e ad un lampo di raggi gamma (Grb) corto seguito da un afterglow in multifrequenza e accompagnato dall’emissione di neutrini di altissima energia. Poiché i Grb, come i blazar, sono prodotti da getti relativistici, si può pensare che, come nel blazar Txs 0506+056, se il getto contiene un certo numero di adroni, gli sciami secondari originati dall’interazione di questi ultimi con la radiazione includerebbe neutrini di alta energia, e questi potrebbero essere rivelati da IceCube o KM3NeT, realizzando così il “triangolo”. È una prospettiva molto allettante per il prossimo run osservativo di Ligo e Virgo, che inizierà a febbraio 2019».


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