SU ASTROBIOLOGY UNO STUDIO DI ESOECOLOGIA

Quattro scenari per l’apocalisse aliena

Può una civiltà tecnologicamente avanzata sopravvivere al cambiamento climatico o a simili fenomeni innescati dal suo stesso progresso? Se lo sono chiesti quattro studiosi provenienti da diverse discipline. Media Inaf ha intervistato una di loro, l’urbanista Marina Alberti dell’università di Washington

     11/06/2018

Uno fra i casi studio dai quali il modello descritto su Astrobiology è partito è quello dell’estinzione della civiltà dell’Isola di Pasqua, passata in modo repentino da diecimila a circa duemila abitanti a causa di uno sfruttamento delle risorse insostenibile (scenario die-off). Crediti: University of Rochester / Michael Osadciw

I mondi abitabili saranno pure miliardi, come un semplice calcolo di probabilità lascia sperare, ma quant’è dura trovare una civiltà aliena… E fra i tanti parametri laschi dell’equazione di Drake, uno in particolare sta attirando – negli ultimi tempi – l’attenzione degli scienziati che si dedicano a studi più speculativi: l’ultimo, il “fattore L”, la durata media di una civiltà extraterrestre capace di comunicare con noi. Com’è facile intuire, oltre a essere utile per le nostre speculazioni sulla probabilità o meno d’imbatterci in E.T., è un parametro assai interessante anche per motivi molto più egocentrici: anche la nostra civiltà, infatti, è improbabile che se la cavi in eterno.

Ma cosa può mettere fine a una civiltà “intelligente”? Fra le mille insidie con conseguenze potenzialmente fatali – dall’asteroide alla pandemia – ce ne sono alcune inestricabilmente legate proprio alla stessa “intelligenza”. Civiltà che soccombono al proprio successo, potremmo dire. Ed è su alcune di queste insidie innescate dal progresso che si concentra uno studio pubblicato la settimana scorsa su Astrobiology. Ponendosi domande di taglio ecologico ad ampio respiro quali: come facciamo a sapere se la sostenibilità è anche soltanto possibile? E ancora: gli astronomi hanno inventariato una parte considerevole delle stelle dell’universo, galassie, comete e buchi neri. Ma l’universo può ospitare anche pianeti con civiltà sostenibili? O invece qualsiasi civiltà che possa mai sorgere nel cosmo è condannata a durare appena pochi secoli, per poi cadere sotto i colpi del cambiamento climatico da essa stessa innescato?

Per tentare una risposta “astrobiologica” a questi interrogativi, i quattro autori dello studio – l’astrofisico Adam Frank e il fisico computazionale Jonathan Carroll-Nellenback dell’università di Rochester, il biochimico Axel Kleidon del Max Planck Institute e l’urbanista Marina Alberti dell’università di Washington  – hanno sviluppato un modello matematico in grado di simulare come una civiltà tecnologicamente avanzata e il pianeta che la ospita possano coevolvere.

I quattro scenari per il destino delle civiltà e dei loro pianeti selezionati grazie ai modelli matematici sviluppati da Adam Frank e dagli altri autori dello studio. La linea nera mostra l’andamento demografico della civiltà, la linea rossa mostra la traiettoria co-evolutiva dello stato del pianeta (usando come indicatore, in questo caso, la temperatura globale). Crediti: University of Rochester / Michael OsadciwCrediti:

Ne sono emersi quattro potenziali scenari che potrebbero verificarsi in un sistema interagente civiltà-pianeta. C’è lo scenario die-off (riquadro A nella figura a fianco), nel quale a un aumento repentino della popolazione segue un altrettanto repentino crollo (in seguito, per esempio, all’innalzamento della temperatura del pianeta), per cui rimane in vita solo una piccola frazione di abitanti. C’è quello di sostenibilità (B), dove invece gli abitanti riescono ad adottare risorse a basso impatto prima di arrivare a effetti catastrofici. C’è il collasso senza cambiamento di risorse (C), nel quale dopo una brusca ascesa la popolazione, appunto, collassa in tempi brevi, forse fino a sparire. E c’è infine quello che è forse l’epilogo più triste di tutti, il collasso con cambiamento di risorse (D), nel quale l’adozione di risorse a basso impatto avviene, ma troppo tardivamente per evitare il collasso della civiltà.

Civiltà extraterrestri a parte, quale di questi quattro scenari è il più probabile per noi che viviamo qui sulla Terra? Abbiamo rivolto la domanda all’urbanista del team, Marina Alberti. Nata in Calabria e lauerata in urbanistica a Venezia, Alberti si è poi trasferita negli Usa, dove ha completato un dottorato al Massachusetts Institute of Technology, a Boston. In seguito ha fatto parte della task force che ha creato l’Agenzia europea per l’ambiente, per poi tornare negli Stati Uniti per un postdoc a Stanford, e approdare infine a Seattle, dove insegna da vent’anni all’università di Washington.

Marina Alberti, coautrice dello studio uscito su Astrobiology, è professoressa al dipartimento di Urban Design and Planning della University of Washington, dove dirige lo Urban Ecology Research Laboratory

«L’obiettivo del nostro studio», ha risposto Alberti a Media Inaf, «è di porre la questione della sostenibilità della nostra specie su questo pianeta in un contesto astrobiologico. Ci siamo chiesti se è possibile generalizzare la dinamica delle interazioni tra la una civiltà (che noi chiamiamo resource-harvesting technological civilization) e l’ambiente del pianeta in cui questo tipo di civiltà evolve. I nostri modelli presentano scenari plausibili. Non possiamo parlare di probabilità. Piuttosto il nostro modello matematico illustra i vari modi in cui una popolazione tecnologicamente avanzata co-evolve con l’ambiente del suo pianeta con l’obiettivo di determinare le condizioni in cui tale civilizzazione può sopravvivere. Gli scenari sono utili a mettere a fuoco la dinamica e a illustrare le possibili traiettorie che possono emergere. Per esempio nel quarto scenario la popolazione collassa nonostante la transizione da high-impact resources a low-impact resources. Il fattore determinante sono i tempi di transizione. Il cambiamento climatico è un fenomeno che, un volta in atto, potrebbe essere troppo tardi invertire nonostante la transizione verso nuove fonti energetiche».

E questo come si collega alla ricerca di civiltà extraterrestri?

«La recente scoperta di esopianeti ci costringe a ripensare la vita sulla Terra e ci offre l’opportunità di far progredire le nostre conoscenze sulle interazioni dinamiche tra civilizzazione e ambiente. Chiedersi se la sostenibilità di una civiltà tecnologicamente avanzata è possibile potrebbe aiutarci a ridefinire i confini di tale possibilità nell’ipotesi che l’umanità sia in grado di evolvere la capacità di entrare in una dinamica di cooperazione con la biosfera».

Il vostro è un team quanto mai interdisciplinare: un astrofisico, un fisico computazionale, un biochimico e un’esperta in pianificazione urbanistica e ambientale – lei. Come siete finiti a scrivere un paper insieme?

«Le mie collaborazioni scientifiche si sono evolute con i miei interessi di ricerca e le domande che mi pongo. La curiosità scientifica mi ha sfidato a esplorare discipline e campi di ricerca che non fanno tipicamente parte della comunità scientifica con la quale un’urbanista collabora. Ma i problemi scientifici che oggi ci troviamo ad affrontare richiedono conoscenze e competenze che appartengono a discipline diverse. Io collaboro con ecologisti, biologi dell’evoluzione, fisici, astronomi, informatici, archeologi e molti altri. E questo non è il primo paper che scrivo insieme ad Adam Frank e Axel Kleidon: nel 2017 abbiamo pubblicato “Earth as a Hybrid Planet: The Anthropocene in an Evolutionary Astrobiological Context”,  nel quale presentiamo una classificazione dello stato di evoluzione dei pianeti».


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