UNO STUDIO TRA LA FILOSOFIA E LA SCIENZA

Cosa rende un pianeta abitabile?

Uno studio pubblicato di recente sulla rivista Astrobiology suggerisce che la nostra definizione di abitabilità potrebbe non essere legata così a doppio filo alla distanza del pianeta dalla propria stella. I dati raccolti dagli strumenti di prossima generazione sui sistemi planetari in formazione potrebbero fornirci una risposta. Con il commento di Giuseppe Piccioni (INAF)

     06/07/2016
Composizione di due immagini che ritraggono la Terra (a sinistra) e Venere (a destra). Crediti: Arie Wilson Passwaters/Rice University

Composizione di due immagini che ritraggono la Terra (a sinistra) e Venere (a destra). Crediti: Arie Wilson Passwaters/Rice University

Con la scoperta negli ultimi anni di migliaia di sistemi planetari si sono aperte numerose frontiere nello studio dell’abitabilità di pianeti diversi dal nostro. Secondo uno studio pubblicato di recente sulla rivista Astrobiology, condotto da ricercatori statunitensi e canadesi, se le condizioni iniziali nel sistema solare fossero state di poco differenti, Venere potrebbe essere lussureggiante e piena di vita, mentre la Terra potrebbe risultare totalmente inospitale.

I ricercatori sostengono che una serie di piccoli cambiamenti evolutivi, avvenuti nelle prime fasi di vita del Sistema solare, potrebbero aver alterato per sempre il destino della Terra e di Venere. Queste alterazioni sarebbero modellabili e studiabili attraverso l’osservazione di altri sistemi planetari, in particolare quelli in fase di formazione, stando a quanto dice Adrian Lenardic, ricercatore della Rice University a Huston.

«Il nostro articolo include un po’ di filosofia della scienza e un po’ di scienza», dice Lenardic. «È un ambito estremamente pionieristico, perché per ora non abbiamo fatto ricerca in termini di segni di vita al di fuori del Sistema solare. Il nostro studio suggerisce come muoversi per fare studi di questo tipo».

Lenardic e i suoi colleghi suggeriscono che i pianeti abitabili potrebbero anche trovarsi al di fuori di quella che comunemente chiamiamo la “zona di abitabilità” dei sistemi planetari. La zona di abitabilità è definita come quella regione di spazio non troppo vicina (e quindi calda) né troppo lontana (e fredda) da permettere a un pianeta roccioso di ospitare acqua liquida sulla sua superficie e un’atmosfera adatta a sostenere la vita. I ricercatori ritengono che questa descrizione potrebbe essere troppo limitante.

«Per molto tempo abbiamo vissuto in un unico esperimento: il nostro Sistema solare», continua Lenardic. «Sebbene l’articolo parli di pianeti, riguarda vecchie questioni su cui gli scienziati ragionano da tempo: l’equilibrio tra caso e necessità, le leggi fisiche e le contingenze, il rigoroso determinismo e le probabilità. Ma in un certo senso è come domandarsi: se potessimo eseguire nuovamente l’esperimento che ha dato luogo al mondo in cui viviamo, il risultato sarebbe questo stesso Sistema solare oppure no? Per molto tempo questa è rimasta una questione puramente filosofica, ma ora che abbiamo a disposizione osservazioni di altri sistemi planetari, possiamo cominciare a porci questa domanda in termini scientifici. Se troviamo un pianeta extrasolare che si trova dove è collocato Venere nel Sistema solare e che mostra segni di vita, allora sapremo che ciò che vediamo attorno a noi non è universale».

Matt Weller, a sinistra, e Adrian Lenardic, autori dello studio che amplia la nostra conoscenza del concetto di abitabilità planetaria. Crediti: Jeff Fitlow/Rice University

Matt Weller, a sinistra, e Adrian Lenardic, autori dello studio che amplia la nostra conoscenza del concetto di abitabilità planetaria. Crediti: Jeff Fitlow/Rice University

Ampliando il concetto di zona abitabile, i ricercatori hanno evidenziato che anche la vita sulla Terra non è necessariamente legata alla distanza dal Sole. Un pizzico di differenza nei parametri che definivano le prime fasi di vita del Sistema solare e il nostro pianeta sarebbe potuto diventare del tutto invivibile. Analogamente, una differenza altrettanto piccola avrebbe potuto cambiare in maniera sostanziale le sorti di Venere, impedendogli di diventare quel deserto caldissimo circondato da un’atmosfera velenosa per la vita come la concepiamo.

L’articolo mette in discussione anche l’idea che la tettonica a placche sia una delle condizioni necessarie per avere la vita sulla Terra. «C’è un dibattito in corso su questo, ma ciò che sappiamo è che nelle sue prime fasi di vita, diciamo 2-3 miliardi di anni fa, la Terra assomigliava a un pianeta alieno e inospitale», spiega Lenardic. «Sappiamo che l’atmosfera era completamente diversa, priva di ossigeno, e si discute del fatto che la tettonica a placche fosse o meno attiva. Ma non c’è alcun dibattito circa la presenza di vita in quell’epoca remota, dunque anche il nostro pianeta potrebbe aver attraversato stati molto diversi tra loro durante la sua evoluzione. Dovremmo quindi escludere dai nostri studi un pianeta extrasolare privo di ossigeno e di attività tettonica?

«L’abitabilità è una variabile evolutiva», aggiunge Lenardic. «Dovremmo iniziare a ragionare in termini di come co-evolvono la vita e il pianeta che la ospita».

Le possibilità di studiare in dettaglio i pianeti al di fuori del Sistema solare sta migliorando di anno in anno, grazie alle aumentate capacità di analisi degli strumenti a nostra disposizione. Nei prossimi anni saremo certamente in grado di scoprire e caratterizzare i sistemi planetari e i pianeti che li compongono, e forse anche di scovare segni di vita.

«Ci sono ambiti di ricerca che spostano ogni giorno i confini delle nostre conoscenze, con scoperte che fino a pochi anni fa era pazzesco anche solo immaginare», conclude Lenardic. «Il nostro studio riguarda più che altro ciò che possiamo immaginare, basandoci sulle leggi della fisica, della chimica e della biologia, di come potrebbero essere fatti i pianeti, non solo quelli che conosciamo attualmente. Quando avremo accesso a un numero molto maggiore di osservazioni, effettuate con miglior dettaglio rispetto a quelle che abbiamo a disposizione oggi, non dovremo più limitare la nostra immaginazione».

«Il concetto di abitabilità di un corpo celeste, ovvero la sua capacità naturale di mantenere delle condizioni ottimali per ospitare, almeno potenzialmente, la vita, è spesso usato in modo fin troppo semplificato» commenta Giuseppe Piccioni, planetologo dell’INAF-IAPS di Roma. «Il concetto di zona abitabile, ad esempio, ovvero la zona “ottimale” in termini di distanza di un pianeta dal proprio sole, è frequentemente utilizzata per identificare potenziali pianeti abitabili in altri sistemi planetari al di fuori del Sistema solare. Ciò da spesso origine ad ambiguità e conclusioni che hanno poco a che fare con un metodo scientifico. In termini generali, sappiamo che per l’abitabilità di un pianeta, che non necessariamente significa la presenza di vita presente o passata, sono necessari degli ingredienti che devono convivere per tempi sufficientemente lunghi e non in modo episodico. E’ importante la chimica, ovvero la presenza di elementi essenziali oltre alla presenza di acqua liquida, come ad esempio ossigeno, carbonio, idrogeno, azoto, ecc…; è importante la fisica, ovvero le condizioni ambientali che non siano ostili e quindi è importante anche l’energia ed il bilancio energetico. Il punto fondamentale sintetizzato in questo articolo è che questi ingredienti non sono una conseguenza logica ovvia indotta da uno stato di partenza con parametri “buoni”, ovvero la giusta distanza dalla stella centrale, la giusta massa, la presenza di tettonica a zolle, ecc… In realtà ci possono essere (o meglio dire ci sono) delle criticità nel corso della storia evolutiva di un pianeta/satellite, identificabili come biforcazioni che possono portarlo ad uno stato molto diverso da quello apparentemente previsto dai modelli e quindi trovarsi in una situazione più simil-Venere che simil-Terra, pur partendo dallo stesso punto di partenza della sua storia evolutiva. Il problema di queste criticità è che per un pianeta possono crearsi condizioni di stati bistabili la cui soluzione è determinata da parametri di ampiezza molto limitata al di sotto del rumore. Quello che si può apprendere da questo studio è che l’applicazione di modelli evolutivi al caso degli esopianeti per determinarne l’abitabilità va fatta sempre in modo non eccessivamente semplificato, evidenziando i limiti delle possibili soluzioni e costringendone i parametri quanto più possibile. Inutile dire che il paradigma del nostro Sistema solare resta sempre il banco di prova più efficace per tracciare nei modelli i processi evolutivi in maniera più netta, ampliando la speranza di successo nella loro applicazione ai mondi alieni».

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