TERMODINAMICA DEI BUCHI NERI

Così funziona l’orizzonte degli eventi

I buchi neri sono oggetti straordinari e mostruosamente misteriosi. Una delle caratteristiche che più interessano i ricercatori è l’entropia, cioè una misura del disordine interno del sistema fisico del buco nero. Ne parla uno studio su Physical Review Letters di tre ricercatori italiani del Max Planck Institute for Gravitational Physics e della SISSA di Trieste

     27/05/2016
Aspetto previsto di un buco nero non rotante - Crediti: Brandon Defrise Carter. Wikimedia common

Aspetto previsto di un buco nero non rotante – Crediti: Brandon Defrise Carter. Wikimedia
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I buchi neri sono corpi celesti ancora molto misteriosi che però, così pensa la maggior parte dei fisici, non si sottraggono alle leggi della termodinamica. Questi sistemi fisici possiedono dunque un’entropia, anche se ancora non c’è un vero accordo sull’origine microscopica di questa proprietà e il modo di calcolarla. Un gruppo di ricercatori SISSA / Max Planck Institute (Potsdam) ha ottenuto un risultato importante in questo calcolo applicando un nuovo formalismo (la Group Field Theory) della Loop Quantum Gravity (LQG), un approccio molto popolare nell’ambito della gravità quantistica.

Il risultato concorda con la famosa legge di Bekenstein e Hawking, secondo cui l’entropia di un buco nero è proporzionale ad un quarto della sua area, evitando però molte delle assunzioni e semplificazioni fatte in tentativi teorici di LQG precedenti, e porta inoltre prove a favore dell’ipotesi olografica, secondo cui il buco nero che ci appare tridimensionale potrebbe essere matematicamente ridotto a una proiezione bidimensionale. Di principio niente che entri in un buco nero può uscire dal buco nero. Questo complica notevolmente lo studio di questi corpi misteriosi sui quali, a partire dal 1916, anno in cui sono stati ipotizzati come conseguenza diretta della Teoria della Relatività di Einstein, generazioni di fisici hanno dibattuto.

C’è però un certo accordo nella comunità scientifica sul fatto che essi possiedano un’entropia, perché altrimenti la loro esistenza violerebbe la seconda legge della termodinamica. In particolare Jacob Bekenstein e Stephen Hawking hanno suggerito che l’entropia – che in maniera molto generale possiamo considerare come una misura del disordine interno di un sistema fisico – del buco nero sia proporzionale alla sua area, e non al suo volume come sarebbe intuitivo supporre. Da questa considerazione ha origine anche l’ipotesi “olografica” dei buchi neri, che (descrivendola molto grossolanamente) suggerisce che ciò che ci appare tridimensionale potrebbe essere in realtà un’immagine proiettata su un lontano orizzonte cosmico a due dimensioni, proprio come un ologramma che pur essendo un’immagine bidimensionale ci appare tridimensionale. Poiché non possiamo guardare dentro l’orizzonte degli eventi (il limite esterno del buco nero), i microstati interni che definiscono l’entropia sono inaccessibili, e dunque com’è possibile calcolare questa misura?

L’approccio teorico di Hawking e Bekenstein è semiclassico (una sorta di ibrido fra fisica classica e meccanica quantistica) e introduce la possibilità (o la necessità) di adottare un approccio di quantum gravity in questi studi, in modo da poter ottenere una comprensione più fondamentale della fisica dei buchi neri. La lunghezza di Planck è la dimensione (piccolissima) alla quale lo spazio-tempo smette di essere continuo come lo vediamo noi, e assume una grana discreta, fatta di quanti, gli ‘atomi’ dello spazio-tempo. l’Universo a questa dimensione è descritto dalla meccanica quantistica. La Quantum Gravity è l’ambito che studia la gravità nel quadro di riferimento della meccanica quantistica: questa forza è infatti un fenomeno molto ben descritto nell’ambito della Fisica Classica, ma non è ancora del tutto chiaro come si comporti alla scala di Planck.

Daniele Pranzetti e colleghi in un nuovo lavoro pubblicato su Physical Review Letters propongono un risultato importante che nasce dall’applicazione di un formalismo di seconda quantizzazione della Loop Quantum Gravity (LQG), un approccio teorico al problema della quantum gravity, e la Group Field Theory, che è il “linguaggio” con cui la teoria viene applicata in questo lavoro. «L’idea sulla quale ci siamo basati è che le geometrie classiche omogenee emergano da uno stato condensato dei quanti di spazio introdotti in LQG per descrivere geometrie quantistiche», spiega Pranzetti. «In questo modo abbiamo ottenuto una descrizione degli stati quantistici del buco nero, in grado anche di spiegare la fisica “continua”, ovvero quella dello spazio tempo a noi familiare». Un altro aspetto importante del lavoro di Pranzetti e colleghi è che propone un meccanismo concreto in supporto all’ipotesi olografica, secondo cui la tridimensionalità del buco nero potrebbe essere solo apparente: tutta la sua informazione potrebbe essere in realtà contenuta su una superficie bidimensionale, senza bisogno di dover investigare la loro struttura interna (da qui il legame fra l’entropia e l’area del buco nero e non il volume).

Gli altri due autori dello studio sono Lorenzo Sindoni, ex ricercatore della SISSA ora al Max Planck Institute for Gravitational Physics di Potsdam in Germania, e Daniele Oriti, sempre del Max Plank. Ortiti descrive così, a Media INAF, l’ipotesi alla base del loro lavoro: «L’idea principale è di sfruttare il formalismo di group field theory (GFT) per “costruire un buco nero” a partire dai mattoncini elementari che, nella teoria di LQG/GFT costituiscono lo spaziotempo, nello stesso senso in cui gli atomi costituiscono un fluido. Una volta fatto questo, diventa possibile studiarne le proprietà termodinamiche (in particolare l’entropia) e anche eventuali proprietà olografiche (che in genere vengono semplicemente date per scontate oppure giustificate a partire dalla teoria della Relatività Generale, che però, dal punto di vista della gravità quantistica, non è una teoria fondamentale) in maniera esplicita e direttamente a partire dalla sua struttura microscopica. E questo è quello che facciamo».

«Abbiamo realizzato esplicitamente l’idea di cui sopra», continua Ortini, «costruendo una classe di stati microscopici (cioè appropriate configurazioni di un gran numero dei costituenti quantistici elementari) che hanno, a livello macroscopico, le proprietà base di un buco nero sferico. Il modello descrive un buco nero come un “condensato quantistico” (più precisamente definendo una sequenza di condensati ciascuno dei quali descrive una “sfoglia sferica” e poi incollando tutte queste sfoglie l’una all’altra per formare una sfera piena – un po’ come si forma una cipolla sferica a partire dai suoi strati interni). L’orizzonte è la sua superficie più esterna». Un “condensato” è una collezione di ‘atomi’, in questo caso si tratta di quanti di spazio, che hanno tutti le stesse proprietà, e quindi pur essendo tantissimi, è possibile tuttavia descrivere il loro comportamento collettivo in maniera semplice, facendo riferimento alle proprietà microscopiche di una sola particella. Ecco che allora appare più chiara l’analogia con la termodinamica classica: come alla nostra scala i liquidi, pur composti da un numero enorme di atomi, ci appaiono come materiali continui, allo stesso modo nello scenario della quantum gravity dagli atomi costituenti fondamentali dello spazio emerge una sorta di fluido, ossia lo spazio-tempo continuo. Una geometria continua e omogenea (come quella di un buco nero a simmetria sferica) può, come suggeriscono Pranzetti e colleghi, essere descritta come un condensato, il che rende più maneggevole il calcolo matematico sottostante, pur tenendo conto di un numero a priori infinito di gradi di libertà.

«Abbiamo così potuto usare un modello più completo e ricco di quanto sia stato fatto in passato nell’ambito della LQG, ottenendo un risultato molto più realistico e robusto», osserva Pranzetti. «Questo permette di risolvere delle ambiguità che affliggevano i risultati precedenti, dovute al confronto di questi modelli semplificati con i risultati dell’analisi semi-classica, come quella fatta da Hawking e Bekenstein».

«Una volta definita questa costruzione in tutti i suoi dettagli», aggiunge Oriti, «uno può assumere di sapere “da cosa è fatto un buco nero” a livello microscopico, e studiarne le proprietà su questa base. Rispetto agli studi precedenti, la novità sta sia nel fatto che si fanno i conti appunto a partire da un modello “realistico” definito nella teoria fondamentale (piuttosto che in qualche modellino semplificato che cerchi di catturarne solo alcuni aspetti), e che ne cattura molti più dettagli microscopici: per esempio la sovrapposizione quantistica e l’entanglement tra costituenti elementari».

Sono previsti follow up per lo studio? «Ci sono vari progetti con cui stiamo sviluppando questo modello e la sua analisi. Uno ha a che vedere con la dinamica del buco nero e dell’orizzonte così modellato (cioè vogliamo capire quali transizioni microsopiche possono portare da una configurazione macroscopica del buco nero a un’altra, per esempio a un buco nero più grande. Un altro ha a che vedere con lo studio delle altre proprietà termodinamiche di questo orizzonte (oltre la sua entropia) e, più in generale, di geometrie macroscopiche, a partire dai loro costituenti quantistici microscopici. Un altro ancora, forse prioritario, sempre nel caso di un buco nero, si propone di ottenere anche una descrizione microscopica fondamentale della radiazione di Hawking, emessa dal buco nero stesso», conclude Oriti.

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