ORA NE CONOSCIAMO QUASI DUEMILA

Vent’anni di pianeti extrasolari

Nell'ottobre 1995 veniva pubblicata la scoperta del primo pianeta extrasolare attorno a una stella simile al Sole. Oggi ne conosciamo circa duemila, di cui la metà confermati negli ultimi due anni. Isabella Pagano (INAF): "Mi aspetto che tra altri vent'anni avremo già analizzato un discreto numero di atmosfere"

     02/10/2015
51 Pegasi b visto con il programma Celestia

51 Pegasi b visto con il programma Celestia

All’inizio di ottobre di venti anni fa, Michel Mayor e Didier Queloz dell’Osservatorio di Ginevra, in Svizzera, grazie a osservazioni spettroscopiche compiute dall’Osservatorio dell’Alta Provenza, in Francia, fecero un annuncio (pubblicato il mese successivo su Nature) destinato a diventare storico: la scoperta del primo pianeta extrasolare in orbita attorno a una stella simile al Sole, la stella 51 Pegasi, a 48 anni luce verso la Costellazione di Pegaso.

Già a partire da pochi giorni dopo quell’annuncio, la reale esistenza dell’esopianeta venne confermata da altri gruppi di ricerca, facendo assurgere l’esopianeta 51 Pegasi b, un gioviano caldo che orbita in circa quattro giorni attorno alla sua stella, al rango di primo rappresentante di una stirpe che, dopo vent’anni, conta quasi duemila esemplari. Tanti sono i pianeti extrasolari confermati, dove la parolina magica è appunto “confermati”, per i quali si hanno cioè dati sufficientemente precisi (in particolare sulla massa) e/o avvalorati da osservazioni indipendenti, mentre un numero doppio di candidati attende l’opportunità di rientrare in tale lista.

Anche se scoperte sui pianeti al di fuori del Sistema Solare erano già state fatte in precedenza, si può dire che l’identificazione di 51 Pegasi b ha idealmente permesso agli scienziati di voltare pagina, di passare da questioni del tipo “Esistono pianeti attorno ad altre stelle?”, la cui risposta non poteva essere data per scontata senza una conferma sperimentale, a domande sempre più specifiche: come sono fatti questi pianeti, quante e quali stelle della nostra galassia ne ospitano almeno uno, ci sono pianeti che ospitano forme di vita?

Domande le cui risposte parziali aprono un’altra serie infinita di interrogativi. Già il capostipite, 51 Pegasi b, aveva prodotto qualche grattacapo al momento della sua scoperta, visto che la distanza ravvicinata del pianeta non era compatibile con le teorie in voga all’epoca. Nel tempo il campionario si è arricchito, con un’impressionante accelerazione negli ultimi anni: se ci è voluto quasi un ventennio per tagliare il traguardo simbolico del millesimo pianeta conosciuto, nell’ottobre 2013, per aggiungerne altri mille alla lista sono bastati un paio d’anni.

Vista la distanza da noi e l’abbagliamento prodotto dalla loro stella, non stupisce che la scoperta di quasi tutti gli esopianeti sia stata possibile solo attraverso metodi di osservazione indiretta piuttosto che da fotografie al telescopio. Così, le rarissime immagini “vere” di pianeti extrasolari risultano particolarmente emozionanti, anche quando, come nel caso di Beta Pictoris b, si tratta solo di una minuscola bolla di pixel che emerge dalla notte cosmica.

Come non stupisce il fatto che la maggior parte dei pianeti individuati siano giganti gassosi come Giove: grandi e, in genere, abbastanza lontani dalla stella. Negli ultimi anni, soprattutto grazie alla missione Kepler, sta notevolmente crescendo la frazione di pianeti rocciosi, in particolare quelli massivi del tipo Super Terra.

Naturalmente, la speranza di ogni scienziato è di trovare il pianeta “gemello” della Terra. Come potrebbe essere Kepler 452b, la cui scoperta è stata annunciata con grande enfasi dalla NASA a metà luglio scorso. Peccato sia troppo lontano per misurarne tutti i parametri. Per avere conferme o smentite su questo e altre ipotetiche simil-Terre bisognerà attendere la partenza delle missioni dell’ESA CHEOPS, prevista alla fine del 2017, e PLATO, nel 2024.

«Una delle cose che abbiamo imparato in questi vent’anni di raccolta dati, è che la relazione tra la massa e il raggio di un pianeta non è univoca, come invece accade nel Sistema Solare», racconta a Media INAF Isabella Pagano dell’Osservatorio Astrofisico di Catania dell’INAF, che è coordinatrice INAF delle missioni CHEOPS e PLATO. «Questo significa che laddove troviamo un pianeta piccolo, non possiamo dire con certezza che sia roccioso. E stiamo constatando che è problematico anche il caso opposto: pianeti grandi che non è detto che siano gassosi».

La missione PLATO – spiega la ricercatrice – andrà a raccogliere quei dati che attualmente mancano per avere una statistica completa sulle densità, in particolare di pianeti piccoli su orbite “lunghe”, superiori al periodo di Mercurio, considerate abitabili per le stelle simili al Sole.

Un aspetto che forse affascina meno il grande pubblico ma che interessa grandemente gli scienziati è la “architettura” dei sistemi planetari, di cui si cominciano a studiare i dettagli. Ad esempio, grazie a sofisticate tecniche gli scienziati riescono a valutare il modo in cui i pianeti (al momento solo i più massicci) si muovono attorno alla loro stella, determinando il senso di rotazione e l’asse d’inclinazione della loro orbita rispetto a quello della stella. Oggi – continua Pagano – cominciamo a comprendere come si può costituire e schierare la “squadra” di pianeti attorno a una stella, di cui il Sistema Solare è solo una delle possibili formazioni.

E tra altri vent’anni? «Mi aspetto che tra una quindicina d’anni avremo compilato un catalogo abbastanza completo, quasi un Atlante, di pianeti attorno alle stelle più vicine, soprattutto quelle simili al Sole», risponde Pagano. «Poi mi aspetto che avremo compreso qual è la composizione interna di questi pianeti, qual è la relazione che c’è tra la struttura e la dimensioni. In questo Atlante ci saranno anche delle indicazioni su dove ci aspettiamo che ci siano delle atmosfere osservabili, e questo sarà il punto di partenza per il passo successivo, andare proprio a guardare queste atmosfere, misurarne la composizione, rivelare la presenza di eventuali biomarker, come la clorofilla. Mi aspetto dunque che tra vent’anni avremo già un buon inventario di osservazioni sulle atmosfere di esopianeti».