LE STIME DELLE RENAISSANCE SIMULATIONS

Meno galassie nell’Universo primordiale

Quante galassie deboli siamo in grado di osservare? E' una domanda a cui hanno cercato di rispondere un gruppo di ricercatori della Michigan State University (MSU) attraverso una serie di simulazioni numeriche condotte con i supercomputer. I loro risultati, pubblicati su Astrophysical Journal Letters, suggeriscono che l'Universo delle origini potrebbe essere un luogo poco affollato, implicando che il numero delle galassie più distanti, e più deboli, sia da 10 fino a 100 volte inferiore

     02/07/2015

Secondo uno studio recente guidato da alcuni ricercatori della Michigan State University (MSU), potrebbero esserci meno galassie nell’Universo rispetto a quanto possiamo immaginare. I risultati, che saranno pubblicati su Astrophysical Journal Letters, suggeriscono che la stima del numero delle galassie più distanti, e più deboli, sia da 10 fino a 100 volte inferiore.

Nel corso degli anni, il telescopio spaziale Hubble ha permesso agli astronomi di osservare le regioni più remote dell’Universo. Grazie al suo elevato potere esplorativo, il telescopio spaziale ha fatto emergere tutta una serie di ipotesi sull’esistenza di innumerevoli galassie deboli e distanti. «Il nostro lavoro indica che ci sono meno galassie deboli più di quanto crediamo», spiega Brian O’Shea della, professore associato di fisica e astronomia alla MSU e autore principale dello studio. «Le stime precedenti suggeriscono che il numero di galassie deboli primordiali sia dell’ordine di centinaia o migliaia di volte superiore rispetto alle poche galassie brillanti che siamo in grado di osservare con il telescopio spaziale Hubble».

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La figura illustra la sovradensità di materia (pannello superiore) e la frazione ionizzata (pannello inferiore) per tre regioni di cielo simulate dalle Renaissance Simulations. I triangoli rossi rappresentano le posizioni delle galassie che sono state rivelate da Hubble. Il suo successore, JWST, sarà in grado di rivelare un numero maggiore di galassie deboli e più distanti, che sono mostrate dai quadrati blu e dai cerchi verdi. Queste galassie primordiali reionizzarono l’Universo solo un miliardo di anni dopo il Big Bang, un processo che è rappresentato nel pannello inferiore dalle bolle blu attorno alle galassie. Credit: Brian W. O’Shea (Michigan State University), John H. Wise (Georgia Tech); Michael Norman and Hao Xu (UC San Diego)

O’Shea e colleghi hanno utilizzato il supercomputer Blue Waters della National Science Foundation (NSF) per realizzare una serie di simulazioni numeriche, chiamate Renaissance Simulations, al fine di esaminare la formazione delle galassie nell’Universo primordiale. John Wise, Dunn Family Assistant Professor alla Georgia Tech’s School of Physics, si è occupato del codice. Inoltre, il gruppo di Wise ha preparato i dati anche in previsione delle osservazioni future che saranno realizzate a partire dalla seconda metà del 2018 dal telescopio spaziale James Webb (JWST), utilizzato in questo caso come una sorta di “calibratore” delle simulazioni in modo da inserire i parametri giusti.

I ricercatori hanno simulato migliaia di galassie alla volta, includendo anche i processi di interazione gravitazionale e radiativi. Le simulazioni sono risultate consistenti con le galassie reali distanti, perlomeno con quelle che sono state scoperte e confermate. Inoltre, i calcoli non hanno rivelato un aumento esponenziale del numero di galassie deboli, così come era stato previsto in precedenza. «Il numero delle galassie più deboli rimane costante e non aumenta in maniera significativa», dice O’Shea. «Questo appiattimento della distribuzione delle galassie a luminosità sempre più basse rappresenta il risultato più importante e significativo di questo studio perchè fornisce preziosi indizi sul periodo di reionizzazione dell’Universo, quando cioè il gas passa da uno stato per lo più neutro ad uno stato maggiormente ionizzato», aggiunge Wise.

Il termine “reionizzato” viene utilizzato per indicare che l’Universo venne ionizzato immediatamente dopo il Big Bang. A quell’epoca, la materia ordinaria era costituita solamente da atomi di idrogeno i cui protoni (che hanno carica positiva) erano stati privati dagli elettroni (che hanno carica negativa). Successivamente, l’Universo si raffreddò abbastanza per permettere agli elettroni di unirsi ai protoni, formando così atomi di idrogeno neutro. Essi, però, non produssero alcuna radiazione ottica o ultravioletta e senza quella luce gli astrofisici non sono in grado di “vedere” con i telescopi quegli indizi riconducibili all’evoluzione cosmica della cosiddetta “età oscura dell’Universo“. La luce emerse quando iniziò l’epoca della reionizzazione. In un altro lavoro precedente (preprint) altre simulazioni condotte da due ricercatori, che hanno partecipato a questo studio, hanno permesso di concludere che circa 300 milioni di anni dopo il Big Bang l’Universo era ionizzato al 20%, dopo 550 milioni di anni era ionizzato al 50% per diventare completamente ionizzato 880 milioni di anni dopo la sua creazione.

Dunque, queste simulazioni saranno messe alla prova dal telescopio JWST. La tecnologia di cui disporrà il successore di Hubble permetterà agli astronomi di osservare gli oggetti con dettagli ancora migliori rispetto a quelle che hanno caratterizzato finora le immagini fornite da Hubble. “Potremmo dire che il telescopio spaziale Hubble sta vedendo solo la punta dell’iceberg delle galassie più remote”, afferma Michael Norman, direttore del San Diego Supercomputer Center presso l’University of California e co-autore dello studio. «Una delle domande fondamentali a cui rispondere è: quante galassie sono talmente deboli che siamo ancora in grado di osservare? Grazie all’analisi di queste nuove e super dettagliate simulazioni, ciò che troviamo è che ci sono da 10 a 100 volte meno galassie rispetto a quanto potrebbe predire una semplice estrapolazione».

Nonostante il telescopio spaziale James Webb permetterà di migliorare l’osservazione delle galassie distanti, tuttavia il suo campo di vista è relativamente piccolo. Per questo motivo, gli astronomi dovranno tener conto della cosiddetta varianza cosmica, cioè la variazione statistica del numero di galassie che dipende dalla regione dello spazio in cui esse sono distribuite. «Anche se faremo passi in avanti nel campo della tecnologia, questo lavoro rende importanti le nostre simulazioni. Forse, sarà necessaria una comprensione teorica più approfondita per interpretare in maniera corretta ciò che si sta osservando, come ad esempio i dati che saranno prodotti dalle survey ad alto redshift», conclude O’Shea.


arXiv: Probing The Ultraviolet Luminosity Function of the Earliest Galaxies with the Renaissance Simulations