UNO STUDIO SU NATURE SULLA FORMAZIONE

I pozzi di Rosetta

Pubblicata su Nature uno studio sugli ultimi risultati ottenuti grazie a OSIRIS, lo strumento d’imaging a bordo di Rosetta. Spiegato il perché dei “pozzi” presenti sul suolo della cometa Churyumov Gerasimenko

     01/07/2015

OSIRISI “pozzi” di Rosetta. Un nuovo studio pubblicato su Nature spiega l’origine dei “famosi pozzi” rilevati lo scorso agosto (https://www.media.inaf.it/2015/01/22/covergirl-67p/). I risultati sono stati ottenuti analizzando i dati raccolti dalla camera OSIRIS (Optical, Spectroscopic, and Infrared Remote Imaging System), che vede un significativo contributo italiano, con il CISAS (Centro di Ateneo di Studi e Attività Spaziali dell’Università di Padova), con il supporto di ASI e INAF.

«La traduzione di “pits” in “pozzi” forse non rende proprio l’idea esatta di quello che abbiamo realmente osservato» – ci dice Giampiero Naletto del CISAS, responsabile del disegno ottico di uno dei due telescopi di OSIRIS, la Wide Angle Camera – «Un pozzo solitamente è profondo e stretto mentre in questo caso le cavità osservate sono più larghe che profonde. Inoltre alcune di esse sono attive cioè ancora in continua evoluzione».

La cometa è una cosiddetta gioviana, di breve periodo, ed è, come si può dedurre dal nome, soggetta all’influenza gravitazionale del pianeta gigante. Ma non è sempre stato così. La sua orbita si è, infatti, ridotta notevolmente solo di recente: tipicamente una cometa che raggiunga una particolare vicinanza con i giganti gassosi Giove o Saturno è destinata a subire una notevole variazione dell’orbita. Ed è il caso anche della Churyumov-Gerasimenko, il cui perielio (cioè il massimo avvicinamento al Sole), pari a circa 4,0 UA (1 UA=distanza Terra-Sole) fino al 1840, si è ridotto a dapprima a 3,0 e quindi a 1,28 UA a causa di due successivi incontri con Giove, il secondo dei quali avvenuto nel 1959.

Attualmente ha un periodo di 6,45 anni e l’incontro ravvicinato col Sole avverrà il prossimo 13 agosto 2015, quando passerà a 183 milioni di chilometri dal Sole (quindi poco più di 1,2 UA), in un’orbita tra la Terra e Marte. Inoltre, a causa della particolare inclinazione della 67P, la porzione della superficie osservata e analizzata è illuminata dal Sole solamente quando la cometa si trova “lontano” da esso, ed è quasi in ombra quando lo cometa è “vicina”. Quindi, quella che si è vista è la superficie cometaria meno alterata dal calore solare, e quindi in qualche modo quella più vicina alla superficie originaria. Questo ci permette di osservare, in qualche modo, i primi effetti dell’avvicinamento della 67P alla nostra stella.

Il fattore da tenere in considerazione nella formazione dei pits osservati è la differenza nelle temperature di sublimazione dei diversi elementi da cui è composta la cometa. Trovandosi in condizioni di pressione ultra bassa gli elementi volatili presenti, quali monossido di Carbonio (CO), anidride carbonica (CO2) e acqua (H2O), passano direttamente dallo stato solido a quello gassoso. Il processo di sublimazione avviene a temperature diverse per i tre componenti man mano che la cometa si avvicina al Sole. Questa sorta di sublimazione differenziata crea delle porosità, una fragilità del terreno, che causa delle vere e proprie frane “sotterranee” del materiale formando così le cavità.

Si tratta quindi di un processo geologico endogeno, e non di crateri da impatto come si era pensato, ma di vere e proprie formazioni indotte all’interno della cometa. Man mano che il processo “di scavo” continua, grazie al calore fornito dal Sole, le cavità crescono lasciando solo una sorta di “crosta” ghiacciata; ad un certo punto anche questo “tappo” crolla, e la cavità è quindi esposta direttamente alla radiazione solare, generando l’emissione di getti di gas e polvere.

In fase di attività quindi s’innesca un processo che si auto alimenta: più la cavità è profonda più è grande la superficie delle pareti esposte alla radiazione solare e quindi va aumentando la degassazione differenziata del materiale che continua a franare andando a depositarsi sul fondo, innalzando così il livello del “pozzo”.

Il pit n° 1 osservato da diverse angolazioni da OSIRIS. In tutte le immagini la freccia verde punta allo stesso masso e la freccia blu punta allo stesso crinale all’interno del pit

Il pit n° 1 osservato da diverse angolazioni da OSIRIS. In tutte le immagini la freccia verde punta allo stesso masso e la freccia blu punta allo stesso crinale all’interno del pit

I pozzi rilevati e analizzati con OSIRIS, nel lavoro presentato su Nature, sono 18 e appaiono disporsi in piccolo gruppetti. I ricercatori sono riusciti a evidenziare come alcuni di essi siano attivi e in continua evoluzione, come sopra descritto. Questo potrebbe permettere di misurare il tasso di invecchiamento della cometa arrivando a concludere che le comete “più vecchie”, che hanno cioè subito più passaggi vicino al Sole, hanno una superficie più liscia e omogena mentre le “più giovani”, come la 67P, presentano “rughe molto più profonde”, i pits attivi appunto.

Ciò che è stato misurato è, in particolare, il rapporto tra profondità e diametro dei pits: il risultato è che quelli più attivi hanno un rapporto più alto mentre quelli attualmente “spenti” risultano essere meno profondi proprio perché hanno raggiunto la fine del processo sopra descritto. Tali misure sono state anche confrontate con quelle effettuate sulle depressioni circolari già note in altre due comete, la 9P/Tempel 1 e la 81P/Wild 2, anch’esse gioviane. I “pozzi” della 67P, anche quelli inattivi, risultano comunque più profondi di quelli delle due comete e questo ci conferma la diversa storia evolutiva di 67/P rispetto ad esse.

Pits più profondi e attivi significano un numero decisamente minore di passaggi vicino al Sole e quindi un tasso di invecchiamento decisamente minore. Wild 2 e Temple 1 sono andate quindi incontro a un lifting naturale per il quale la Churyumov Gerasimenko dovrà effettuare ancora diverse “sedute”.

A questo si aggiunga il fatto che le polveri rilasciate nei successivi passaggi al perielio tornano in parte a depositarsi sul suolo omogeneizzando ancora di più eventuali scabrosità della superficie.

«Ci restano ancora diversi aspetti da capire», spiega ancora Giampiero Naletto. «Per esempio abbiamo rilevato che la crosta superficiale della cometa è estremamente isolante tanto che al di sotto di pochi centimetri la temperatura scende tantissimo: è quindi difficile ritenere che sia l’irraggiamento superficiale a innescare la sublimazione che forma le cavità, o almeno che ne sia la sola causa. Dobbiamo allora cercare un meccanismo in grado di produrre energia dall’interno: stiamo pensando a una transizione di fase del ghiaccio, da amorfo a cristallino, tale per cui verrebbe rilasciato un calore sufficiente ad innescare la sublimazione delle diverse componenti del terreno cometario. Un altro aspetto ancora è che non ci è chiaro se l’interno della cometa sia costituito da macro o da micro porosità. Noi continuiamo ad analizzare i dati che sono moltissimi. Naturalmente se si riuscisse a riprendere i comandi di Philae e a eseguire il carotaggio potremmo compiere dei notevoli passi in avanti».

Il team padovano, guidato da Cesare Barbieri dell’Università di Padova, attivo già durante le fasi di progettazione, costruzione e verifica di tutto lo strumento è ora impegnato anche nell’analisi dei dati prodotti da OSIRIS.