ERANO IL 20% DELLE SORGENTI PRIMORDIALI

Moltissimi i buchi neri fra le prime stelle

Almeno una protogalassia su cinque potrebbe contenere un buco nero. È quanto emerge da uno studio della NASA, ottenuto combinando i dati dei satelliti Chandra e Spitzer, coordinato da Nico Cappelluti, ricercatore all’INAF-Osservatorio astronomico di Bologna.

     05/06/2013
Crediti: Karen Teramura, UHIfA

Crediti: Karen Teramura, UHIfA

Buco nero non si nasce, d’accordo. Ma nemmeno lo si dovrebbe diventare così, dall’oggi al domani. Essendo l’ultima tappa possibile nell’evoluzione d’una stella massiccia, vien da pensare che sia necessario un lungo intervallo di tempo, per raggiungere la piena maturazione. E dunque che i buchi neri abbiano fatto la loro comparsa relativamente tardi, nella storia del cosmo. Ma da un’analisi della radiazione di fondo in banda infrarossa e in banda X emergono sorprese: quanto meno nella porzione di cielo osservata, la presenza di buchi neri era già rilevante anche fra le primissime stelle dell’universo. Al punto che addirittura una sorgente di raggi infrarossi su cinque, fra quelle risalenti all’universo primordiale, risulterebbe essere un buco nero.

«Abbiamo impiegato quasi cinque anni, per portare a termine questo studio, ma i risultati sono sorprendenti», dice Nico Cappelluti, astronomo presso l’INAF-Osservatorio astronomico di Bologna e primo autore della ricerca appena pubblicata su The Astrophysical Journal. «Se i risultati saranno confermati, questo lavoro potrebbe costituire la base per capire come si sono formati i buchi neri supermassicci agli albori dell’universo».

La scoperta è avvenuta confrontando le mappe del bagliore residuo (la luce che rimane dopo aver sottratto l’emissione di tutte le sorgenti note) in banda infrarossa e in banda X, ottenute rispettivamente con i telescopi spaziali della NASA Spitzer e Chandra. Già i dati sul bagliore residuo osservato, sin dal 2005, dal satellite Spitzer avevano portato gli scienziati a concludere che potesse trattarsi del fondo cosmico a raggi infrarossi (CIB), una luce risalente all’epoca in cui prendevano forma le prime strutture dell’universo, fra le quali stelle e buchi neri primordiali. Elaborando i dati multibanda raccolti, nel 2007, nella stessa regione di cielo ma con un telescopio sensibile ai raggi X, Chandra (sempre della NASA), Cappelluti ha prodotto a sua volta mappe della radiazione residua. E di nuovo, proprio come con Spitzer, è rimasto un bagliore di fondo, questa volta però in banda X: il CXB, dunque, o fondo cosmico a raggi X.

Dal confronto fra le due mappe, è emerso che le fluttuazioni del bagliore residuo alle energie X più basse mostrano una coerenza significativa con quelle presenti nelle mappe a infrarossi. Dunque, sia una parte dell’emissione infrarossa che di quella X sembrano provenire dalle stesse regioni del cielo. Ma le uniche sorgenti in grado di emettere in entrambe queste bande con l’intensità necessaria, spiegano gli scienziati, sono proprio i buchi neri. Le galassie normali, comprese quelle con i tassi di formazione stellare più elevati, non ci riuscirebbero. Non solo: per rimanere indistinte, le sorgenti alimentate dai buchi neri devono trovarsi a distanze estreme. Dunque devono risalire a un’epoca molto primitiva della storia dell’universo.

«Ancora per molti anni le sorgenti di quest’epoca dell’universo non saranno direttamente osservabili dai telescopi. La nostra tecnica ci ha però permesso di vedere oltre le capacità osservative dei telescopi moderni», sottolinea Cappelluti, spiegando che nemmeno i telescopi più potenti sarebbero in grado di distinguere le stelle e i buchi neri più distanti come singole sorgenti. È solo l’analisi del loro bagliore complessivo, giunto fino a noi dopo un viaggio lungo miliardi di anni luce, ad aver consentito agli astronomi d’estrarre i contributi relativi di stelle e buchi neri della prima generazione.

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