
Il satellite fatto in casa si chiama TubeSat, è un modulo cilindrico alimentato a celle solari e attrezzato di batterie, antenna, ricetrasmettitore, un microcomputer e varie componenti elettroniche. Può trasportare piccoli oggetti, come payload di 250 grammi (grandi quanto un cellulare), e ha un’autonomia di vita nello spazio di due mesi, dopo di che rientra in atmosfera e si disintegra, non contribuendo così all’accumulo di detriti spaziali.
La compagnia sta testando i lanci dei microsatelliti in orbita bassa, a 310 chilometri di altezza con il vettore Neptune 30 dallo spazioporto dell’isola di Tonga, nell’Oceano Pacifico. Se tutto andrà come previsto, i lanci dei satelliti, 10-12 alla volta, inizieranno entro il primo trimestre del prossimo anno. Al di là della trovata commerciale di promuovere microsatelliti low-cost, l’iniziativa potrebbe aprire l’accesso allo spazio, tipicamente elitario e inaccessibile ai più, e metterlo alla portata di tutti (o quasi). Studenti, sognatori, appassionati potranno cimentarsi con la costruzione di sonde artigianali con cui fare esperimenti di vario genere. Una fantasia nata sin dalle prime missioni spaziali (si ricorda il film “Cielo d’Ottobre”, tratto da una storia vera, in cui il protagonista è un ragazzo di 17 anni che resta così impressionato dal lancio dello Sputnik da decidere di costruire un razzo con le proprie mani). Una fantasia che ora diventa realtà.
Per esempio, con TubeSat, è possibile monitorare la Terra dall’alto, fare misurazioni del campo magnetico o ambientali, testare componenti hardware e software, seguire le traiettorie degli animali migratori, fare esperimenti di biologia, ma anche cose più bizzare come pubblicità o funerali spaziali. In tempo di crisi, non è da escludere che iniziative del genere diventino un supporto privato a basso costo per le vere missioni spaziali. Per il momento sono soprattutto un gioco per ispirare scienziati in erba a pensare in grande.






