Quella che segue è la trascrizione del quindicesimo episodio di Houston, un podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali. Ideato, realizzato e condotto da Valentina Guglielmo, quest’episodio – pubblicato per la prima volta il primo febbraio 2025 – parla della missione Cluster dell’Esa e ha come ospite il fisico Paolo Ferri. Potete ascoltarlo su Apple Podcasts, su Spotify e su YouTube. Oppure direttamente da qui.
Paolo Ferri
Tra l’altro alcune si guastavano in modo spettacolare, nel senso che ce ne hanno fatte di tutti i colori. Per esempio, producevano gas, in certi casi fuoriusciva e ci ha cambiato l’orbita del satellite, perché era come un propulsore, no? Questa fase è stata molto difficile da gestire, perché non è che avevi un preavviso. A un certo punto ti scoppiava la batteria oppure ti andava a zero il voltaggio. È stata una fase molto dolorosa.
[inizio musica]
Valentina Guglielmo
Avete presente l’effetto memoria delle batterie di una volta? Quelle dei vecchi apparecchi elettronici, per intenderci. Più le usavi, e meno duravano fino a rendere l’apparecchio, o il telefono, o il portatile, inutilizzabili. Anche le batterie dei quattro satelliti Cluster erano così, e già dopo cinque anni di volo cominciarono a dare segni di cedimento. Con un’aggravante però. Invece di durare sempre meno o smettere semplicemente di funzionare, prima di esaurirsi completamente esplodevano, perdevano liquidi, emettevano gas – e spostavano i satelliti, danneggiavano connettori, circuiti e parti vitali. Eccoci di nuovo qui allora, dopo averli visti esplodere nel ’96 con il primo Ariane 5, e dopo aver raccontato del problema allo strumento Wec risolto con un comando taroccato, a parlare ancora della missione Cluster.
Non hanno avuto vita facile, questi quattro satelliti, poveracci, che hanno lavorato indefessi per più di 24 anni prima di perdere il primo componente della squadra. Ne parliamo con Paolo Ferri, che allora aveva appena assunto il ruolo di Operations manager all’Esa e che – come ormai saprete se avete ascoltato questo podcast – negli anni ne ha viste di cotte e di crude.
Io sono Valentina Guglielmo e questo è un podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali. Si chiama Houston.
[fine musica]
Valentina Guglielmo
Esplosi al decollo nel 96, ricostruiti in parte con pezzi di ricambio, e poi finalmente partiti nel 2000. I quattro satelliti Cluster, come moschettieri del cielo, hanno volato in formazione per più di 24 anni attorno al nostro pianeta per studiarne la magnetosfera e l’interazione con il vento solare.
I loro nomi però non sono proprio quelli che si darebbero a dei moschettieri. Si chiamano infatti Salsa, Samba, Rumba e Tango, e sono stati assegnati dal grande pubblico. Sono stati scelti attraverso un concorso internazionale bandito nei primi mesi del 2000 fra i cittadini dei paesi membri dell’Agenzia spaziale europea. Tra le oltre cinquemila proposte ricevute, questa è stata quella vincente. Non c’era niente di meglio? Qualcuno lo avrà pensato. Comunque, la proposta arrivava da un tale Raymond Cotton, di Bristol: Salsa, Samba, Rumba e Tango sono nomi facili da ricordare, internazionali e che suggeriscono l’idea del movimento “in formazione” dei quattro satelliti nel corso della loro missione. Che, in fondo, è proprio la loro principale caratteristica.
[Audio del lancio di Cluster]
Valentina Guglielmo
Dopo il disastro dell’Ariane 5 di cui abbiamo parlato nella scorsa puntata, e dopo le polemiche seguite anche per il danno economico di quell’esplosione, tutto ci si sarebbe potuti aspettare tranne che i quattro satelliti venissero ricostruiti. Paolo Ferri, vi ricorderete se avete sentito la puntata numero 14, era presente al primo lancio perché lavorava al progetto Cluster negli anni ’90. Dopo l’esplosione al decollo, si è spostato nel team della missione Rosetta, e la missione Cluster tornò sotto la sua responsabilità nel 2006, quando diventò capo divisione delle missioni solari e interplanetarie.
Paolo Ferri
No, non me lo aspettavo, però è stata sicuramente un’eccezione. Non succede spesso, questi satelliti di solito sono dei prototipi unici, è difficile ricostruirli, costa tantissimo comunque. Questa è stata una combinazione di varie cose. Prima di tutto, questi erano quattro satelliti identici, quindi l’industria era già, e non è normale per queste missioni, era già orientata a una specie di produzione in serie. Tant’è vero che nel giro di pochi mesi abbiamo preso le parti di ricambio dei quattro satelliti e ne abbiamo costruito uno, usando le parti di ricambio. Quindi il costo di ricostruirli e la fattibilità di ricostruirli nel giro di pochi anni. Secondo, c’era questo direttore della scienza, e io ho una grandissima ammirazione per questa persona, si chiama Roger Bonet ed è stato direttore della scienza per anni; e lui si sentiva responsabile di questa scelta di lanciare su Ariane, e di avere fatto, diciamo, la scelta sbagliata. Non l’ha mai detto, ma sono sicuro, era una persona per cui il lavoro era molto importante, non era solo un uomo di potere, era bravissimo, era un politico, uno scienziato, veramente una persona straordinaria. Ma lui sono convinto che l’abbia presa come questione personale, come una sfida personale. Ha fatto un errore che non ha mai ammesso, non l’ha mai detto nessuno, non l’avrebbe mai ammesso pubblicamente. Ma io sono convinto che dentro di sé voleva rimediare. E quindi si è prodigato, ha fatto carte false, come si dice in Italia. Non ha fatto carte false, ma si è inventato dei trucchi finanziari, diciamo, al limite del lecito, per riuscire a trovare i soldi per rilanciare cluster. E ci è riuscito: è stata un’impresa un po’ unica.
Valentina Guglielmo
I quattro satelliti furono quindi ricostruiti e lanciati nel giro di quattro anni. Il vettore questa volta era un razzo Soyuz, e i quattro vennero messi in orbita a coppie, con due lanci diversi a distanza di un mese. Non più tutte le uova nello stesso paniere, insomma. Il primo dei quattro satelliti, Cluster 1 come lo chiama Ferri, in arte Salsa, fu ricostruito interamente usando pezzi di ricambio avanzati dai primi quattro satelliti costruiti negli anni ’90. In pratica, partiva già vecchio di quasi dieci anni. Anche gli altri satelliti vennero usati senza alcuna modifica al progetto iniziale, e partivano quindi con alcune tecnologie ormai superate a bordo. Lanciarli così, però, era l’unico modo per far partire la missione, perché dopo il danno economico dell’esplosione serviva risparmiare il più possibile, e ottimizzare tempi e risorse. Fra le cose un po’ obsolete che, a lungo andare, diedero noia, le batterie.
Paolo Ferri
Fra l’altro, satelliti lanciati nel 2000 con una tecnologia antica. Tra l’altro satelliti lanciati nel 2000 con una tecnologia antica. Avevano delle batterie chimiche della vecchia generazione, delle cose pesantissime, di capacità ridotta, soprattutto effetti di memoria, deteriorazione chimica, insomma. Erano delle cose veramente vecchie, che negli anni 2000 facevano sorridere, però insomma era quello che avevamo. La missione andò bene, come al solito: prevista per due anni, estesa, eccetera, nessun problema. Ma già, se ricordo bene, dal 2005 in poi, queste batterie cominciarono a dare dei problemi. Erano invecchiate già abbastanza, che era normale negli anni ’90 che le batterie durassero così poco, e quindi cominciarono a guastarsi. Tra l’altro alcune si guastavano in modo spettacolare.
Valentina Guglielmo
Le batterie a bordo dei satelliti cluster erano all’argento-cadmio, una tecnologia che derivava da quella al nickel-cadmio usata all’inizio dell’era spaziale, ma già quasi superata. Il problema era che la capacità di queste batterie si riduceva con l’uso. Il famoso “effetto memoria” che abbiamo citato all’inizio dell’episodio e che, se non siete proprio giovanissimi, avrete sperimentato anche con telefoni e altri apparecchi di alcuni anni fa, prima che arrivassero le batterie al litio che questo problema lo hanno quasi completamente eliminato.
Comunque, le batterie servivano ai satelliti Cluster per sopravvivere alle eclissi, ovvero a quei periodi lungo la loro orbita in cui si trovavano nell’ombra della Terra, potremmo dire nel lato notturno, senza che i pannelli solari potessero ricevere la luce del Sole.
L’orbita dei satelliti cluster è un’ellissi che nel punto di minima distanza dalla Terra arriva a quota 19 mila km e nel punto di massima distanza arriva a circa 119 mila km, e per percorrerla tutta i satelliti impiegano circa due giorni. Quest’orbita li fa entrare in eclissi solo in alcuni periodi, circa due volte l’anno. In queste stagioni – così le chiamano gli addetti ai lavori – le eclissi si verificano ad ogni orbita e per molte orbite consecutive, e possono durare anche fino a quaranta minuti. Che sembra poco, rispetto alla durata di una notte sulla Terra, ma che è invece molto per un satellite che deve sopravvivere senza la sua fonte primaria di energia, ovvero il Sole. In quei momenti, dicevamo, servono le batterie. E quando potrebbe guastarsi un sistema se non quando è in uso. Come per tutte le cose – mica un’auto si guasta a stare ferma – le batterie si guastavano proprio nel momento in cui il loro utilizzo era vitale. Sapendolo, però, gli ingegnosi ingegneri dell’Esa avevano inventato vari metodi per limitare i danni, anche piuttosto fantasiosi.
Paolo Ferri
Per esempio, niente di magico eh, però nei satelliti che avevano meno batterie, quindi meno capacità di mantenere, per esempio, i riscaldatori elettrici durante la fase d’eclissi, in cui il satellite diventa molto freddo, nelle ore precedenti all’eclissi, nei giorni precedenti all’eclissi, scaldavano i serbatoi di propellente. Scaldavano tanto, li portavano a temperature molto più alte, non so, tipo 28 gradi, una roba del genere. Così quando entravi in eclissi il satellite si raffreddava, però il calore di questi serbatoi si diffondeva nel satellite e praticamente lo manteneva un po’ tiepidino. Quindi, io dicevo, usavano i serbatoi come battValentina Guglielmo\nerie, batterie termiche invece che le batterie chimiche, e usavano l’energia termica invece che l’energia elettrica. Quindi avevano queste idee straordinarie, appunto, di utilizzare altri sistemi che non c’entravano niente per aggirare problemi di un certo sistema.
Valentina Guglielmo
Ogni satellite cluster aveva cinque batterie a bordo, e dal 2005 in poi, come popcorn in una pentola, cominciarono a “scoppiare” uno dopo l’altra. Ogni satellite si trovava in uno stato diverso naturalmente, e il più disastrato era Cluster 1, Rumba, quello costruito con i pezzi di ricambio e quindi il più anzianotto. Nella primavera del 2006 aveva già perso 2 batterie durante le eclissi e le altre tre erano quasi al capolinea.
Per risparmiare il più possibile, il team di Cluster a Esoc aveva studiato delle configurazioni “a risparmio energetico” in modo da spegnere quante più unità possibili. Si passava quindi da una modalità di funzionamento normale dei satelliti, fino a una configurazione estrema chiamata Solo decodificatore, in cui il satellite veniva spento quasi completamente prima dell’eclissi lasciando acceso solo il ricevitore che doveva eseguire i comandi per riaccendere tutti i sistemi dopo l’eclissi. Come diceva Ferri, comunque, buona parte dell’energia elettrica immagazzinata nelle batterie serviva, durante la fase di ombra, ad alimentare alcuni riscaldatori elettrici che dovevano mantenere la temperatura del satellite e di tutti i suoi sistemi entro i limiti operativi. Durante un’eclissi, un satellite si raffredda velocemente e la sua temperatura può scendere di decine di gradi in pochi minuti.
Comunque, tutti sapevano che era solo questione di tempo prima che nessuna delle batterie di Rumba riuscisse più a sostenere nemmeno la funzione Solo decodificatore. Successe durante una delle due stagioni di eclissi del 2007.
Paolo Ferri
Chi è arrivato per primo al momento critico? Cluster 1, quello che era stato fatto con i pezzi di ricambio degli anni ‘90. Era quello più vecchio ed è quello che ha esaurito le batterie prima di tutti. Quindi siamo arrivati a un punto in cui si poteva ridurre tutto il carico elettrico che si voleva, ma a un certo punto, se non c’erano più batterie, appena entrava in ombra il satellite si spegneva. Ora, essendo un satellite stabilizzato per spin, per rotazione, non è così grave se si spegne. Lui non perde il controllo d’assetto, continua a girare su se stesso. Quando ritorna il Sole, punta ancora correttamente sui pannelli solari, si riaccende e tutto torna come prima, sulla carta. Ma in realtà quello che succede è che tu entri in eclissi prima attraverso la penombra, poi l’ombra; quindi, il sole non è che scompare completamente, ma si spegne piano piano. E prova a prendere un computer e invece di staccargli la spina – che non è mai una bella idea col computer che gira – prendi la tensione e la fai scendere lentamente nel giro di un minuto da, non so io, 28 volt a zero. E poi quando lo riaccendi al contrario, da zero a 28 volt in un minuto. Questo è devastante per l’elettronica, ne succedono di tutti i colori. Di solito, dopo un po’ di volte, questi ti si spaccano. E comunque non hai proprio idea in che stato ti si riaccenderà il tuo computer, se si riaccende. E in effetti avevamo anche dubbi che si potesse riaccendere. Soprattutto a noi serviva che si riaccendesse una parte dell’elettronica che si chiamava “decodificatore”, perché se questo si riaccendeva noi potevamo mandargli i comandi attraverso il ricevitore, per accendere tutto il resto.
Valentina Guglielmo
La preoccupazione più grande era che, all’uscita dall’eclissi, non si riaccendesse correttamente il decodificatore, cosa che avrebbe reso impossibile comandare il satellite da terra. Di decodificatori a bordo ce ne erano due, e la prima speranza era che almeno uno dei due reagisse correttamente.
Il 21 settembre 2007 il team di ESOC prese il coraggio a quattro mani e affrontò la prima eclissi di Cluster in modalità di Spegnimento. Il satellite entrò nell’ombra e si spense completamente, mentre continuava a girare su sé stesso per mantenere il giusto assetto, e quando uscì l’elettronica si riaccese e da terra si riuscirono subito a mandare i comandi per accendere il trasmettitore e riconfigurare il satellite. Sospiro di sollievo.
Dal 2007 al 2010 Cluster 1 continuò a sopravvivere in questo modo, anche se ogni tanto doveva affrontare qualche problema causato dalla rottura di altre batterie. Nel 2009 se ne guastarono due, ed entrambe persero liquido che andò a danneggiare alcuni connettori importanti per la trasmissione dei dati di telemetria a terra.
Poi, dopo ben 47 eclissi superate senza problemi o quasi, arrivò quella del 4 febbraio 2010. La prima di un nuovo periodo, che durava appena 4 minuti e 17 secondi nella fase di ombra totale, con fasi di penombra ancora più brevi.
Paolo Ferri
Un giorno, era un giovedì, mi chiamano quelli di Cluster e mi dicono “vieni, vieni – era durante l’ora di lavoro – abbiamo un problema”. Vado nella sala controllo e mi dicono “guarda, abbiamo fatto un’eclisse con Cluster 1, un’eclisse di quelle in cui dovevamo spegnere tutto, e questo si è riacceso, pensiamo si sia riacceso, ma non riceviamo telemetria. Abbiamo provato a mandargli comandi, ma non reagisce”. Niente, erano tutti lì che cercavano di analizzare, abbiamo fatto una piccola riunione e io ricordo che in quella fase lì facevo domande riguardo al segnale radio. Prima di tutto, se avevamo un segnale radio, sapevo che non avevamo telemetria, però per me era importante sapere se avevamo almeno il segnale radio, che noi chiamiamo la portante. E per loro mi resi conto che erano domande un po’ strane, che non si erano mai chiesti. Non avevano mai fatto distinzione tra la portante e la telemetria, se non ho la telemetria non ricevo… e non avevano la risposta, perché la risposta ce l’avevano solo i nostri colleghi delle stazioni, nella sala accanto, quindi abbiamo cominciato a tirare dentro anche loro.
Valentina Guglielmo
Nell’audio che abbiamo sentito, Ferri racconta che quella mattina, al termine dell’eclissi, Cluster 1 non rispose come ci si aspettava all’invio dei comandi da terra. Il trasmettitore si accese e inviò il segnale radio, quello che Ferri chiama portante, ma senza iniziare a modulare il segnale per inviare i dati telemetrici. Capire esattamente cosa significhi questa frase, cioè cosa distingua il segnale radio dalla telemetria, è fondamentale per capire il problema di Cluster e il seguito della storia. Quindi fermiamoci un attimo.
[inizio musica]
Ogni trasmissione radio usa una frequenza specifica, ovvero un’onda elettromagnetica sinusoidale che le appartiene, esattamente l’onda sinusoidale che caratterizza una nota musicale perfetta. Questa onda radio a frequenza specifica si chiama “portante”. Di per sé infatti quest’onda non dice nulla, se non che il satellite è vivo, l’antenna punta correttamente verso terra e può quindi mettersi in contatto con noi.
Per trasmettere informazioni via radio, quindi, in gergo si dice che la portante viene “modulata”, cioè la sua forma viene modificata dalle informazioni che le si vuole far trasportare. Per esempio, una trasmissione radio AM, che sta per “modulazione di ampiezza”, usa la variazione di ampiezza dell’onda della portante per trasportare l’informazione. L’onda in pratica viene alzata e abbassata ma la distanza fra un picco e il successivo rimane invariata. Chi trasmette usa un “modulatore” per trasformare l’informazione (per esempio la musica che viene trasmessa) modificando appunto l’ampiezza della portante. Chi riceve (cioè il vostro apparecchio radio) usa un “demodulatore” per estrarre questa informazione dal segnale ricevuto e trasformarla in musica da diffondere con le casse o nelle cuffie.
Ci sono vari metodi di modulazione, specialmente quando si tratta di trasmettere informazioni digitali, cioè sequenze di bit, come nel caso dei dati telemetrici delle missioni spaziali. Si può ad esempio modulare la frequenza della portante, e quindi la distanza fra i picchi dell’onda, o traslare queste onde orizzontalmente modificando la fase. Il processo però è lo stesso: chi trasmette “modula” l’informazione digitale sulla portante, e chi riceve “demodula” la portante per estrarne l’informazione digitale.
[fine musica]
Valentina Guglielmo
Ferri mi ha raccontato che un veicolo spaziale può avere diversi problemi di trasmissione. Se si guasta il trasmettitore, ad esempio, non viene inviato più nessun segnale radio e le antenne sulla Terra non ricevono più niente. Ma se il guasto è a monte del trasmettitore, può succedere che il veicolo spaziale continui a trasmettere il segnale radio, cioè la portante, ma che questa non sia modulata, per un guasto al modulatore, o un problema al computer di bordo che produce l’informazione digitale. In questo caso le antenne di terra ricevono solo la portante, cioè una semplice onda radio a una determinata frequenza, ma non possono estrarre da questa nessuna informazione digitale, quindi nessun dato di telemetria. È un problema grave, perché senza telemetria il centro di controllo non sa nulla dello stato in cui si trova il veicolo spaziale. Nonostante questo, il solo fatto di ricevere la portante è comunque un’informazione fondamentale. Tanto per cominciare, dice che il veicolo spaziale è vivo e sta trasmettendo, e che l’antenna di bordo è probabilmente puntata correttamente verso la Terra. E quindi che non ci sono problemi di assetto. Poi dalla portante si possono ricavare alcune informazioni come ad esempio la velocità del satellite, o possono essere inviati dei comandi di prova per modificarne la forma e capire se il veicolo è in grado di riceverli ed eseguirli.
[Estratti audio dal video 15 anni di cluster, storia del recovery di Rumba]
Silvia Sangiorgi
We had no contact with the spacecraft for two days…Ignacio Clerigo
We went through all our nominal procedure…[Doppiaggio di Silvia Sangiorgi]
Non abbiamo avuto contatti con la navicella per due giorni… è stato piuttosto difficile. È successo un venerdì pomeriggio e io dovevo andare a sciare. Ma dopo la nostra normale sequenza di recupero post-eclissi, abbiamo ricevuto la portante, un normale segnale radio, ma senza alcuna modulazione.[Doppiaggio di Ignacio Clerigo]
Abbiamo seguito tutte le procedure nominali, e tutte le procedure di emergenza per tentare il recupero, ma non funzionava nulla, vedevamo sempre solo la portante. Dopo un po’ di tentativi, ci siamo riuniti con tutto il team, e c’era anche Paolo Ferri, che all’epoca era il capo del nostro capo. Discutemmo delle varie opzioni e Paolo fu sempre molto chiaro: “Qualunque cosa facciate, non perdete mai la portante. È l’unica cosa che avete e non dovete assolutamente perderla”. Quindi noi eravamo davvero consapevoli dell’importanza di non perdere quel segnale.
Valentina Guglielmo
In questo audio avete sentito le voci di due dei protagonisti del recupero di Cluster, Silvia Sangiorgi e Ignacio Clerigo, mentre raccontano questa storia in un video pubblicato alcuni anni fa dall’Esa per i 15 anni dal lancio dei satelliti Cluster. La situazione, lo ripetiamo, era che Cluster mandava la portante, ma non modulava la telemetria.
Paolo Ferri
Il team si è ingegnato e ha cominciato a analizzare queste cose. L’unica informazione che avevamo era la forma della portante. E sono arrivati molto presto, entro quel giorno, alla conclusione che Cluster aveva due tipi di comandi su cui agiva. C’erano quelli che chiamavamo hardware, quindi che non avevano bisogno del computer e avevano solo bisogno del decodificatore per essere eseguiti. Andavano ricevuti dall’antenna al ricevitore, poi al decodificatore e il decodificatore li mandava direttamente alle unità di base. Altri comandi, la maggior parte, invece, necessitavano del computer di bordo. I primi funzionavano, gli altri no. Già un ottimo risultato, credo già alla fine del giovedì. Da lì, io ho il privilegio del capodivisione di andare a casa a dormire, invece loro sono stati lì a lavorare. E questi ragazzi ci hanno lavorato. Il giorno dopo è venuto anche uno dell’industria, una nostra vecchia conoscenza, Gunter Lautenschläger da Friedrichshafen, però non ha potuto aiutarci tanto perché, insomma, era veramente una situazione molto strana. E lì, invece, ha cominciato un’analisi molto, molto dettagliata con risultati veramente incredibili il nostro Ignacio Clerigo, che era parte del team. Un ragazzo molto giovane che però si è messo a studiare tutti i circuiti, tutti i sistemi, anche le parti software e hardware del computer di bordo. E alla fine, e sto parlando di due giorni di lavoro perché alla fine ne sono usciti il sabato – e secondo me, giorno e notte, probabilmente non hanno mai neanche dormito in quelle 48 ore – arriva con una sua teoria. Una teoria che un certo registro della memoria del computer fosse stato corrotto in questa accensione graduale e questo registro provocasse delle continue ripartenze, dei reboot del computer, continui. Quindi il computer non poteva risponderci perché era lì che continuava a ripartire. Ogni volta che ripartiva, leggeva quel registro e ripartiva. Un registro che indicava che c’era una situazione di undervoltage, quindi di voltaggio basso. Era corretto, era stato risolto, ma ormai il registro era corrotto. Questa era la sua spiegazione.
Valentina Guglielmo
Ignacio Clerigo, che abbiamo sentito parlare assieme Silvia Sangiorgi, vi ricordate chi è? È lo stesso che nel racconto sullo strumento Wec di Cluster, due puntate fa, si era inventato quel comando taroccato che ha salvato lo strumento. Anche in questo caso è stato grazie a lui se si è capito cosa c’era che non andava.
Secondo lui, il computer di bordo era rimasto fermo al messaggio d’errore che avvertiva che il voltaggio della tensione in ingresso era diminuito (un messaggio corretto che veniva inviato mentre il satellite entrava in eclissi), e per questo continuava a riavviarsi. Le strade possibili a quel punto erano due: o si aspettava l’eclissi successiva, nel giro di una giornata, sapendo che spegnendo tutto il sistema di nuovo e riaccendendo si sarebbe risolto naturalmente. Una soluzione che però non piaceva tanto a Ferri, e nemmeno al team di Cluster, perché non avrebbe insegnato niente. Non avrebbe confermato o smentito la teoria di Ignacio Clerigo. Oppure, bisognava inventare una sequenza di comandi che riuscisse a modificare questo registro elettronico contenente l’errore, un’operazione che comportava uno scotto da pagare. Sentiamo.
Paolo Ferri
Già il giovedì sera io avevo detto a sti ragazzi, avete la portante, il segnale radio, fate quello che volete ma non perdete la portante. Non fate niente che vi faccia staccare la portante. Se staccate la portante, avete perso il vostro contatto e poi sono guai grossi. Quindi voi fate quello che volete ma guai a voi se perdete la portante. E invece loro avevano questo test che implicava spegnere la portante. Quindi hanno avuto un po’ un conflitto di coscienza, sentivano le mie parole che gli risuonavano nella testa. Però erano molto convinti che questa era una soluzione valida e soprattutto avrebbe confermato che quello era il problema. Questo era importantissimo per il futuro.
Valentina Guglielmo
Insomma, Ferri era stato chiaro. Non si doveva perdere la portante. Torniamo allora al racconto di Silvia Sangiorgi e Ignacio Clerigo.
[Estratti audio dal video 15 anni di cluster, storia del recovery di Rumba]
Silvia Sangiorgi
We tried everything but nothing was changing …It was a very hard moment, but on the other side it was a good moment…
Ignacio Clerigo
We gained the signal and the telemetry again…Silvia Sangiorgi
It was a happy ending story with some panicIgnacio Clerigo
and with a couple of minutes of total panic[Doppiaggio Silvia Sangiorgi]
Abbiamo provato di tutto, ma non cambiava nulla, avevamo solo questa portante[Doppiaggio Ignacio Clerigo]
E a un certo punto abbiamo sospettato che il problema potesse essere nell’hardware che selezionava quale computer di bordo fosse acceso. Abbiamo fatto il test e quando lo abbiamo eseguito la prima cosa che è successa è stata la perdita della portante.[Doppiaggio Silvia Sangiorgi]
È stato un momento molto duro, ma dall’altra parte è stato un momento positivo. Sapevamo che se la portante fosse stata persa, siccome il trasmettitore era acceso, era a causa dei comandi inviati che forzavano l’entrata in safe mode, ma comunque avevamo la voce di Paolo in testa che ci diceva “mai perdere la portante!”. Così siamo stati un po’ nel panico ma poi…[Doppiaggio Ignacio Clerigo]
Abbiamo recuperato il segnale e la telemetria e abbiamo potuto chiamare Paolo dicendo che avevamo di nuovo il satellite[Doppiaggio Silvia Sangiorgi]
È stata una storia a lieto fine con un po’ di panico[Doppiaggio Ignacio Clerigo]
e con un paio di minuti di panico totale.
Valentina Guglielmo
Il racconto dei due ragazzi è concitato, quindi provo a riassumere brevemente quello che è successo. Come dicevamo, Ignacio e Silvia si erano convinti che il problema fosse la corruzione di un registro del software di bordo, che indicava il cosiddetto undervoltage, cioè la diminuzione della tensione elettrica. Un registro che inevitabilmente si attivava quando il satellite entrava in eclissi e perdeva gradualmente potenza, ma che doveva uscire di scena a eclissi ultimata. I due avevano quindi preparato una procedura di recupero, ovvero una serie di comandi che andassero a modificare direttamente quel registro. C’era però un piccolo dettaglio: testare la procedura significava perdere il segnale del satellite, e quindi perdere anche la portante. Provarci però, ne erano convinti, era importante soprattutto per il futuro, per evitare di rimanere in balia del caso durante ogni eclissi da quel momento in poi. Uno scenario improponibile, oltre che insensato dal punto di vista della gestione delle operazioni e della scienza della missione. Ignacio e Silvia hanno quindi deciso di disobbedire, a ragion veduta, alle raccomandazioni di Ferri e col fiato sospeso hanno avviato la procedura. Il segnale di Cluster sparì per alcuni minuti, ma poi tornò. Avevano avuto ragione.
Paolo Ferri
Quindi la teoria di Ignacio era giusta, il problema fu risolto in quel modo, ma non solo.
Praticamente avevano una procedura che nel giro di pochi comandi, se fosse successo in futuro, schiacciavano il bottone, mandavano questi comandi e risolvevano. Ed è successo, è successo varie volte nel futuro, ma grazie a questo test di Ignacio, grazie al fatto che non hanno avuto paura, non hanno temuto di perdere la portante e non hanno voluto aspettare che la natura lo risolvesse con l’eclissi successiva, avevano una procedura robustissima. Da allora, con Cluster 1, tutte le volte che è successo l’hanno risolto. Tutti i satelliti successivi nel frattempo hanno perso tutte le batterie. Cluster sta volando ancora adesso, è stato lanciato nel 2000 e non ha più batterie da anni.
Valentina Guglielmo
Nel 2014 il team di Cluster organizzò una riunione e propose di smettere di usare completamente le batterie per tutti e quattro i satelliti. La richiesta fu accolta e da ormai più di dieci anni i satelliti continuano a funzionare con quasi tutti gli strumenti di bordo, e a osservare la magnetosfera terrestre e le sue interazioni con il vento solare. La missione, comunque, volgerà inevitabilmente al termine nei prossimi anni, perché l’orbita dei quattro satelliti li porterà a rientrare nell’atmosfera e non è rimasto abbastanza propellente per alzarla. Oggi sono tre su quattro i satelliti Cluster ancora in volo. L’8 settembre 2024 Cluster 2, Salsa, è rientrato nell’atmosfera cadendo in una zona disabitata del Pacifico.
[Audio del video dell’Esa per il rientro di uno dei satelliti Cluster]
For us it’s a chance to study re-entries under controlled conditions,…[Doppiaggio]
Il rientro di Salsa è un’occasione per studiare i rientri in condizioni controllate, cosa che raramente è stata fatta prima. La missione Cluster è speciale anche perché è composta da quattro satelliti identici; abbiamo quindi quattro opportunità di raccogliere dati preziosi facendo rientrare in sicurezza lo stesso satellite in circostanze leggermente diverse. Possiamo osservare che differenza fa il rientro con quattro diverse angolazioni e velocità e in quattro diverse condizioni atmosferiche. Osservando la discesa di Cluster, gli scienziati sperano di migliorare la nostra comprensione del modo in cui i satelliti si rompono durante il rientro, una cosa fondamentale per progettare in futuro veicoli spaziali più sicuri e a zero detriti. Poiché si tratta di un rientro mirato, inoltre, conosciamo la sua posizione con sufficiente precisione da poter inviare un aereo per osservarlo dal basso. Si tratta di un’opportunità rara che fornirà dati in tempo reale che non possono essere raccolti da terra, aiutando a convalidare i modelli informatici e a migliorare le tecniche di rientro per le missioni future. La fine di Cluster segna la conclusione di un’epoca straordinaria per la scienza spaziale, ma anche l’inizio di un nuovo capitolo nella comprensione del rientro dei satelliti e nella gestione dei detriti spaziali.
[Inizio musica]
Valentina Guglielmo
Far rientrare un satellite in atmosfera, a fine vita, non è cosa scontata. È una pratica che non è regolamentata a livello legislativo e che si basa sul buon senso delle agenzie proprietarie dei satelliti in questione. Per questo, negli anni satelliti dismessi e detriti spaziali hanno iniziato ad accumularsi nelle orbite basse attorno al nostro pianeta creando un problema che oggi costituisce un pericolo per i satelliti in orbita – quello di scontrarsi con questi oggetti inerti. Sono decine di migliaia gli allarmi di collisione che ogni giorno vengono ricevuti nei centri di controllo che gestiscono i satelliti in orbita attorno al nostro pianeta. Lo sa bene anche la sonda Solar Orbiter, ora più vicina che mai al Sole ma che si è avvicinata molto anche alla Terra, nel novembre 2021, per una manovra di assistenza gravitazionale. È passata vicino alla stazione spaziale internazionale, ma soprattutto ha rischiato di essere travolta da questi detriti spaziali, che avrebbero anche potuto distruggerla. Di questa storia, e soprattutto del lancio problematico di Solar Orbiter, parleremo assieme ad Andrea Accomazzo e Jose-Luis Pellon nella prossima puntata di Houston, un podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali.
[fine musica]
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