Quella che segue è la trascrizione del quattordicesimo episodio di Houston, un podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali. Ideato, realizzato e condotto da Valentina Guglielmo, quest’episodio – pubblicato per la prima volta il primo marzo 2025 – parla di lanci spaziali andati più o meno male e ha come ospite il fisico Paolo Ferri. Potete ascoltarlo su Apple Podcasts, su Spotify e su YouTube. Oppure direttamente da qui.
Paolo Ferri
Di colpo vedo mentre mi volto nel suo sguardo una espressione di terrore, mi rivolto verso lo schermo e vedo questa palla di fuoco. In quel momento sento il ground operations manager Nicolas Bobrinsky che dice “Ariane esploso, missione fallita”.
[Inizio Musica]
Valentina Guglielmo
“3, 2, 1, and liftoff…” quante volte – anche nelle puntate di questo podcast – abbiamo sentito questo conto alla rovescia, seguito dal grosso boato del razzo che si accende e poi applausi per il decollo della sonda, o la messa in orbita di un telescopio. Un conto alla rovescia che, come a Capodanno, aspetti che finisca per festeggiare. Anche perché i problemi di cui abbiamo parlato, per ognuna di quelle missioni, non avevano mai a che fare con il lancio. Eppure – e questo vale in generale per qualunque volo aereo – le fasi più delicate sono proprio il decollo e l’atterraggio. Con una differenza: mentre in un volo di linea l’aereo è il mezzo di trasporto che inizia e conclude il viaggio, in una missione spaziale il razzo lanciatore si occupa solo della fase di decollo, ed esce di scena non appena ha concluso il proprio lavoro, lasciando campo libero al suo ospite – satellite, sonda o telescopio che sia – che da quel momento diventa artefice del proprio destino. E torniamo a quel conto alla rovescia. In quegli istanti, al razzo è affidata un’enorme responsabilità. Il 4 giugno 1996, 37 secondi dopo il decollo del primo razzo Ariane 5 al suo volo inaugurale, nei circuiti vocali ufficiali dell’Esa si sente “Ariane esploso, missione fallita”. Nel cielo di Kourou una pioggia di detriti cadeva a cascata come fuochi d’artificio a Capodanno. Quella volta però, finito il conto alla rovescia, nessuno si scambiava auguri, e non c’era niente da festeggiare.
In questa puntata parliamo di razzi e decolli andati più o meno male, assieme a Paolo Ferri, che in quel giorno di inizio giugno 1996 ha vissuto la sua prima esperienza traumatica nel mondo delle missioni spaziali.
Io sono Valentina Guglielmo e questo è un podcast di Media INAF che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali. Si chiama Houston.
[Fine musica]
Valentina Guglielmo
Juice, James Webb Space Telescope, Bepicolombo, Galileo, Herschel Space Observatory, Planck Surveyor, Rosetta, Smart-1, XMM-Newton. Alcuni li avrete riconosciuti, sono stati anche protagonisti nelle scorse puntate di Houston. Ma oltre a questo, cos’hanno in comune? Sono tutte missioni lanciate con successo da un razzo Ariane 5, che in 27 anni di attività ha portato in orbita sonde spaziali, telescopi, satelliti per le telecomunicazioni, missioni per l’osservazione della terra, e navette di rifornimento per gli astronauti a bordo della Stazione spaziale internazionale. Quasi tre decenni – gli ultimi venti senza neanche un inciampo – conclusi con un ultimo lancio, il 5 luglio 2023. Una storia di successi, come lo era stata quella del suo predecessore Ariane 4, tanto che l’Esa ha vissuto quasi un lutto al suo pensionamento. Anche perché il suo erede non era ancora pronto, e l’Esa si è trovata da un giorno all’altro priva della propria indipendenza sui lanciatori. Quello su Ariane 5 è sicuramente un bilancio positivo, quindi, ma com’è cominciata?
Il primo volo di Ariane 5 è stato un lancio di prova, avvenuto il 4 giugno 1996. Sì, proprio la stessa data che abbiamo sentito nell’introduzione. Possiamo dire che non si trattava esattamente di una prova, visto che il carico utile a bordo del razzo erano quattro satelliti scientifici dell’agenzia spaziale europea. I satelliti Cluster, che dovevano essere messi in orbita attorno alla terra per studiarne la magnetosfera. Sentiamo Ferri.
Paolo Ferri
Ariane 5 era il primo lancio, era un lancio di prova, e per questo era stato offerto all’ESA, non dico gratuitamente, ma quasi. E quindi l’ESA ha detto, “beh, ci lanciamo Cluster, che problema c’è?” Un razzo nuovo è un lancio di prova, i lanci di prova possono avere dei problemi.
Valentina Guglielmo
Lei cosa ci avrebbe lanciato?
Paolo Ferri
Un pezzo di cemento, sicuramente. Ma di solito si fa, eh, si fa. Al primo lancio, almeno allora si faceva, al primo lancio non si mette mai qualcosa di valore, si mette qualcosa che verifichi le caratteristiche di performance del lanciatore, ma non che costi troppi soldi.
Valentina Guglielmo
Era stato deciso Cluster perché c’era fiducia rispetto a questo razzo, o c’era una ragione che riguardava le tempistiche?
Paolo Ferri
No, no, la questione era finanziaria: costava poco, costava quasi nulla, era quasi un lancio gratuito. La fiducia c’era perché Ariane veniva da una serie infinita di successi. Il lanciatore precedente, Ariane 4 allora era il Falcon 9 di adesso, lanciava tutto, era bravissimo, funzionava. Aveva avuto i suoi problemi all’inizio, ma ormai aveva una sequenza infinita di lanci strepitosi. Era una macchina veramente perfetta. Quindi la fiducia in Ariane era alta, però questo era un lanciatore completamente nuovo. Vabbè, quindi diciamo il rischio che si è preso è discutibile. Anche lì, come al solito, quando ci si mette nei panni dei manager di allora, si capisce che non è che hanno preso decisioni alla leggera, hanno le loro ragioni, però insomma è stato preso un bel rischio.
Valentina Guglielmo
Lei era presente, è andato al lancio o l’ha seguito a distanza?
Paolo Ferri
No, io l’ho seguito dall’Esoc, io ero responsabile della missione di Cluster, quindi ero in sala controllo, ero il Som. Nel mio lavoro non si va mai al lancio. Il primo lancio che ho visto io nella mia vita è stato nel 2018, perché ormai non avevo più un ruolo operativo. E ne ho visti due in tutta la mia vita.
Valentina Guglielmo
Il Som, che significa spacecraft operations manager, è il responsabile dell’esecuzione di tutte le attività operative di una missione. Le sue responsabilità – leggo dal sito dell’agenzia spaziale europea – comprendono la definizione dei requisiti per le strutture operative e il software, la preparazione delle operazioni, la generazione e la convalida dei piani operativi di volo, dei database e delle procedure, l’esecuzione delle operazioni del veicolo spaziale, la manutenzione del software di bordo e le valutazioni della missione in orbita. Il Som, dunque, è responsabile delle operazioni di volo in orbita e dei relativi team, procedure e database.
E durante il lancio?
Nulla, durante il lancio sta a guardare. Il satellite, telescopio o sonda spaziale che sia, durante il lancio si trova nell’ogiva del razzo e viene liberato solamente dopo che questo ha compiuto tutte le prime fasi di volo e si è liberato di tutti gli stadi di propulsione. A questo punto, prima di proseguire fermiamoci un attimo, e vediamo insieme come funziona un razzo e quali sono le varie fasi di un lancio spaziale.
[Musica spiegone]
Valentina Guglielmo
Lo scopo di un razzo, sembra ovvio da dire ma è fondamentale tenerlo presente, è portare in orbita un oggetto vincendo l’attrazione gravitazionale del nostro pianeta. Per farlo, deve essere in grado di generare una spinta che lo porti a superare, in pochi secondi o minuti, la velocità di fuga della Terra. Il principio fisico alla base è quello di “azione e reazione”, lo stesso che causa il rinculo di un cannone dopo che ha sparato. Il razzo non spara nulla, ma espelle un’enorme quantità di gas di scarico prodotti dalla combustione ad altissima velocità, ottenendo una spinta nel verso opposto, e quindi verso l’alto. Per “bucare” l’atmosfera e liberare il carico utile verso la sua orbita o destinazione finale, un lanciatore deve percorrere almeno 150 km a una velocità di circa 28500 km/h. Se cercate online l’immagine di un razzo Ariane 5, vedrete che visivamente è composto da tre parti: un corpo centrale, il primo stadio criogenico (in lingua originale étage principal cryotecnhique), e due razzi più piccoli a propellente solido attaccati ai lati. Lo stadio principale in verità è a sua volta composto da due stadi che lavorano in successione, il serbatoio e l’ogiva con il carico utile.
Durante i primi minuti del lancio, sono i due razzi laterali a fornire la maggior parte della spinta. Non a caso si chiamano anche booster: pensate che con i loro 30 metri di altezza e 3 metri di diametro, divorano 240 tonnellate di propellente ciascuno in poco più di due minuti. Dopo circa 130 secondi dal lancio, poco più di due minuti, a una quota di 55 kilometri, i due booster vengono sganciati dallo stadio principale e tornano a terra con dei paracadute. All’inizio il motore criogenico fornisce appena l’8% della spinta necessaria, ma rimane attivo e spinge senza sosta per ben dieci minuti prima di spegnere il motore e separarsi, lasciando campo libero al secondo stadio. Rientrerà a terra seguendo una traiettoria balistica, bruciandosi quasi totalmente per attrito con l’atmosfera, e finendo con quel che resta nell’Oceano Pacifico.
[Fine spiegone]
La base di lancio europea si trova, anche per ragioni di economia ed efficienza di lancio, vicino all’equatore, a Kourou, in Guyana francese. Kourou si trova a soli 500km di distanza dall’equatore ed è uno dei posti più umidi al mondo, con una quantità di precipitazioni annuale che va dai 2 mila ai 4 mila mm, e una temperatura media di 26 gradi in tutte le stagioni. Le stagioni, per la verità, non sono altro che un’alternanza fra periodi di pioggia intensa e periodi di pioggia assente, più o meno lunghi. L’origine del nome Guyana, infatti, è un termine arawak che significa proprio “terra ricca d’acqua”. Forse non il posto migliore per programmare una vacanza. Comunque, un posto preziosissimo per l’agenzia spaziale europea, che qui ha costruito la sua porta d’accesso al cosmo.
Ed è qui, infatti, che ha avuto luogo la prima delle storie di cui ci occupiamo in questa puntata. Il primo lancio dei satelliti Cluster. Se avete ascoltato la scorsa puntata di Houston, li avete già incontrati: si tratta di quattro satelliti gemelli – quattro cilindri di 290 di diametro x 130 cm d’altezza, con una rotazione costante di 15 giri al minuto – che orbitano in formazione da una quota minima di 19 mila chilometri circa, a una massima di 190 mila chilometri dalla superficie terrestre. Il loro scopo è lo studio della magnetosfera terrestre e di tutti i fenomeni connessi con il cosiddetto Space weather, il flusso continuo di particelle cariche provenienti dal Sole da cui il nostro pianeta è costantemente investito, e che causa tempeste geomagnetiche potenzialmente dannose per i sistemi elettronici e di comunicazione.
[Stacco musicale]
Il giorno del lancio di Cluster, lo dicevamo prima, era anche il primo volo di Ariane 5. Ferri era in sala controllo all’Esoc, e me l’ha raccontato così.
Paolo Ferri
Quindi ero in sala controllo, ci sono stati vari ritardi. Dovevamo lanciare a dicembre del 2005, poi ritardo, poi marzo, aprile, e infine è arrivato quel 4 giugno del ‘96. Direi anche lì un orario molto molto ragionevole, era metà mattina, quindi ho dormito la sera prima. Al mattino c’era il team B che andava lì e preparava tutta la rete di stazioni, controllava che funzionasse tutto, mentre noi siamo arrivati come chirurghi in sala operatoria: loro avevano preparato il paziente e noi pronti per il lancio. C’è stato un breve ritardo per questioni meteorologiche, mi ricordo di un’ora o qualcosa del genere, avevamo una finestra di due ore. Questi lanci non sono come quelli interplanetari, che devono essere lanciati nel momento giusto, il nostro era abbastanza tranquillo. Il razzo parte e noi come al solito osserviamo nello schermo televisivo questo che parte. Noi avevamo lavorato fino a quel momento, e avevamo anche la telemetria del satellite per controllare tutto, ma nel momento in cui parte si interrompe tutto e si aspetta il momento in cui finalmente il razzo ha finito il suo lavoro, di solito da una mezz’ora a due ore dopo. Nel caso di Cluster era abbastanza veloce, credo tipo tre quarti d’ora; il satellite si sgancia e comincia a trasmettere e noi con le nostre stazioni, le antenne a terra riceviamo il segnale, lì comincia il nostro lavoro, quindi durante l’ascesa noi siamo spettatori. Guardiamo sto razzo che sale. È esploso 37 secondi dopo il lancio, quindi molto molto vicino al lancio, quindi ho visto l’ascesa iniziale e a un certo punto mi sono voltato dalla mia stazione di lavoro verso la parte posteriore della sala controllo dove c’era qualche persona in piedi oltre agli operatori, eccetera. Ho guardato verso il direttore e la segretaria del direttore di volo e di colpo, mentre mi volto vedo nel suo sguardo un’espressione di terrore, mi rivolto verso lo schermo e vedo questa palla di fuoco. Ma il mio primo pensiero si rifiutava di pensare che potesse essere stato un problema, quindi ho detto “sarà lo sganciamento del primo stadio”, che in realtà non aveva senso perché era troppo presto, doveva durare due minuti. È una sequenza di pensieri che ricordo molto bene e che a descriverla ci metto qualche minuto ma in realtà è durato tutto forse un secondo. Quindi ho visto la sua faccia, ho guardato, ho detto no, è il primo stadio che si stacca, e in quel momento sento il ground operations manager Nicolas Bobrinsky che dice “Ariane esploso, missione fallita”. Il mio primo pensiero è stato “ma cosa dice, come si permette di dire una stupidata del genere sui loop ufficiali”, perché io l’ho sentito nel circuito vocale. Tutto questo è durato forse un secondo, ricordo tutti questi pensieri finché a un certo punto il mio cervello ha dovuto accettare la realtà: vedevo i detriti che piovevano.
[Audio del lancio e dell’esplosione di Ariane 5]
Valentina Guglielmo
Se cercate il video del lancio, circa 37 secondi dopo la fine del conto alla rovescia, vedrete il razzo – che aveva ormai raggiunto un’altitudine di quasi 4000 metri – inclinarsi improvvisamente e poi esplodere. Si vede la palla di fuoco di cui parla Ferri, e poi una pioggia di detriti luminosi che comincia a cadere come una cascata di luci dopo l’esplosione di un fuoco d’artificio. Online potete trovare molte immagini di questo momento.
Dopo lo stordimento iniziale di tutti coloro che stavano presenziando al lancio a Kourou, e di chi assisteva dal centro di controllo dell’Esa a Darmstadt, fu istituita una commissione d’inchiesta. Anche perché la stampa non si stava risparmiando commenti a caldo sul costo economico dell’esplosione e della perdita dei quattro satelliti Cluster, e la situazione per l’Esa era molto delicata. Nel rapporto ufficiale pubblicato dall’Esa in seguito all’indagine si legge che il lanciatore ha iniziato a disintegrarsi 39 secondi dopo il lancio a causa – leggo – degli elevati carichi aerodinamici dovuti a un angolo di attacco di oltre 20 gradi che ha portato alla separazione dei due booster dallo stadio principale, e innescato il sistema di autodistruzione del lanciatore.
Questo cambio di angolo d’attacco, che altro non è che l’inclinazione del razzo rispetto alla verticale, è stato causato dalla deflessione completa degli ugelli dei booster dello stadio principale, comandati dal software del computer di bordo sulla base dei dati trasmessi dal Sistema di riferimento inerziale. E quest’ultimo aveva inviato dati di assetto non corretti a causa di un’anomalia software.
L’errore, riuscirono a ricostruire in seguito, è avvenuto perché il computer di bordo cercava di convertire un valore espresso come un numero a 64 bit a virgola mobile (in gergo floating number) in un intero a 16 bit. Il numero da convertire però era maggiore di quanto poteva essere contenuto nell’intero a 16 bit, e questo ha generato un errore interno e una serie di reazioni a catena che hanno portato, alla fine, all’esplosione del razzo. La cosa pazzesca di questa storia, fra l’altro, è che questi numeri nemmeno servivano. Erano un retaggio rimasto dal software dell’Ariane 4, il predecessore, che non erano stati toccati nel trasferimento della tecnologia al nuovo razzo.
Paolo Ferri
Cerco di riassumerlo in modo semplice: quando hanno prodotto Ariane 5 hanno utilizzato molto software di Ariane 4 e la filosofia era “non toccarlo”. Software che funziona, non lo toccare. Se non devi, non toccarlo. Ragione sacrosanta. C’era una routine che serviva solo ad Ariane 4, adesso non ricordo esattamente cosa facesse questa routine, ma funzionava tra l’altro nei primi 30-40 secondi dal lancio. Questa routine su Ariane 5 non serviva, però con la filosofia di non toccarla l’hanno lasciata. Non tocchiamo il software, lasciamo. Tanto non serve. Gira nel background, chi se ne frega. Ora, questa routine utilizzava variabili di software, un byte, due byte, queste cose qua, che erano dimensionate per i parametri dinamici di Ariane 4. Ariane 5 ha parametri dinamici diversi, velocità diverse, accelerazione diversa. Quindi la routine girava, non serviva a niente, però alcuni di questi parametri sono andati in saturazione. Ora, prima cosa, una routine che gira e non serve, non va bene. Secondo, la routine era programmata per un altro lanciatore, e va bene che tanto non serve, ma lasciandola fare funzionava male. Terzo, e questa è una cosa di software engineering di base, questi parametri evidentemente non erano protetti. Di solito le variabili di software vengono protette dall’overflow, dalla saturazione. Queste non lo erano. Insomma, se si mette insieme tutte queste cose… Quarto, ovviamente ci sarebbero stati dei test da fare che evidentemente non sono stati fatti o sono stati tolti. Anche lì solite polemiche, ma perché l’hai tolto? Soliti discorsi uguali dappertutto, col test l’avrebbero scoperto. Insomma, il razzo parte con questa routine che gira nel fondo, alcune variabili vanno in overflow, corrompono la memoria del resto del programma e Ariane praticamente gira i due ugelli dei booster laterali fino a fine scala. Praticamente Ariane, a massima pressione dinamica, non so che velocità andasse allora, 64 metri di altezza, si è messo con un angolo d’attacco di 90 gradi e si è distrutto completamente.
Valentina Guglielmo
Si era trattato, quindi, di un problema software. Uno dei bug più costosi della storia, così è stato definito nei giornali. Secondo un articolo uscito lo stesso anno su Nature, questo scherzetto, oltre a ritardare l’esplorazione commerciale dell’Esa di almeno un anno, ha causato un costo aggiuntivo per l’agenzia di 362 milioni di dollari. Per il secondo volo di test di Ariane 5 si dovette aspettare fine ottobre 1997, e fu di nuovo un parziale fallimento. Nessuna esplosione, ma il razzo non raggiunse l’altezza prevista per liberare il carico utile nell’orbita corretta. Il primo lancio di successo avvenne circa un anno dopo, a fine ottobre 1998, seguito, a dicembre dello stesso anno, dal lancio del telescopio spaziale XMM Newton.
Ma torniamo ancora un’istante a quel giorno di giugno 1996. Sì, perché quell’esperienza, per Ferri e non solo, fu davvero traumatica. Ascoltiamo.
Paolo Ferri
È stato un vero shock, nel senso medico del termine. Io per anni non ho potuto più assistere a un lancio. Non sopportavo l’idea di guardare un lancio. Parlo di due o tre anni.
Valentina Guglielmo
Che cosa provava?
Paolo Ferri
Come una fobia, praticamente. L’idea di andare a guardare un lancio davanti al televisore, non potevo sopportare l’idea. Non l’ho mai fatto. Per due o tre anni. È stato veramente uno shock nel senso medico del termine. E credo che anche tanti altri l’abbiano subito.
In quel momento sei sotto shock, ovviamente viene chiuso tutto, noi dobbiamo stare lì a disposizione, perché non si devono corrompere i dati in nessun modo. La commissione di inchiesta deve analizzare tutto. Passate forse un paio d’ore, quando abbiamo avuto l’autorizzazione ad uscire, siamo usciti. L’ESOC, era tutto pieno di gente per gli eventi del lancio, era venuta la mia famiglia. Io avevo un bambino di sei anni e una bimba di tre. Mia figlia credeva che io fossi sul razzo, non aveva capito. Ha visto un’intervista sullo schermo, dove mi intervistavano prima del lancio, poi ha visto il razzo esplodere, ha visto tutti sconvolti, ha cominciato a piangere, era convinta che io fossi sul razzo. Mia moglie si è rifiutata di venire agli eventi per tutto il resto della mia carriera. I miei bambini non sono più venuti agli eventi di lancio all’ESOC e mia moglie è venuta il giorno che abbiamo finito Rosetta, nel 2016, quindi vent’anni dopo. Per vent’anni lei non ha più voluto venire, per dire quanto è stata pesante quell’esperienza, anche dal punto di vista personale. Quello è stato il giorno dello shock, i momenti brutti sono stati giorni dopo. Io avevo un team di 23 persone e da un giorno all’altro ho dovuto trovare un’occupazione per tutti questi. Non è stato semplice, però poi ci siamo ripresi. A quel punto il mio capo, Manfred Warhout, mi disse (ci sono voluti mesi prima che decidessero di rilanciare Cluster, costruire di nuovo i satelliti e rilanciarli) “se per caso rilanciamo Cluster, tu andrai su Rosetta”. Quindi ho cominciato a lavorare su Rosetta, ho continuato a lavorare su Cluster fino all’aprile successivo, quando hanno deciso che ne avrebbero fatti altri quattro e li avrebbero lanciati. Ho passato al mio vice e da lì Cluster è diventato un po’ il mio passato, finché poi nel 2006 è tornato sotto la mia responsabilità di capo divisione. Ero contentissimo, Cluster è ancora lì che vola adesso, è una cosa incredibile ed è una missione straordinaria. Però quei giorni sono stati tremendi.
Valentina Guglielmo
Di esplosioni come quella accaduta con Cluster, Ariane 5 non ne ha vissute molte. Un’altra celebre fu quella del dicembre 2002, quella che ritardò il lancio della missione Rosetta e costrinse al cambio destinazione. Ne abbiamo parlato nella quarta puntata di Houston.
Come avete sentito, comunque, la missione Cluster alla fine è stata fatta, e in modo un po’ rocambolesco sta ancora lì a volare, dopo 25 anni. Ne parleremo nella prossima puntata. In questa, invece, continuiamo a parlare di lanci.
[Stacco musicale]
Facciamo un salto temporale di 18 anni, al 22 agosto 2014, 14.27 ora italiana. Siamo ancora alla base di lancio europea di Kourou, ma questa volta a bordo di un razzo Soyuz, per il lancio dei satelliti numero 5 e 6 della costellazione Galileo, il sistema di navigazione satellitare europeo. Il lancio è avvenuto in maniera corretta in tutte le sue fasi, e nove minuti e 23 secondi dopo il decollo lo stadio superiore del Soyuz, il Fregat, si è separato dal terzo stadio del lanciatore. Il rilascio in orbita dei due satelliti, invece, era previsto a tre ore e 47 minuti dal lancio. Solo dopo questo momento, i controllori dell’agenzia spaziale europea potevano mettersi in comunicazione con i satelliti e verificare in prima persona che tutto fosse andato per il meglio. Prima di quel momento, l’unico modo per sapere se razzi e satelliti si comportavano come previsto era guardarli da terra cercandoli nella loro orbita teorica attraverso alcune antenne.
Quel giorno, l’antenna con la quale Paolo Ferri e il team dell’Esa cercava i satelliti Galileo si trovava in Australia, ma già qualche minuto dopo il lancio faceva fatica a mantenere il tracking lungo l’orbita prevista, e continuava a perdere il razzo. Come se il razzo non stesse seguendo la giusta traiettoria. E in effetti era proprio quello che stava succedendo. Dopo il rilascio dei due satelliti, ci si rese conto che non solo volavano più bassi del previsto, ma stavano seguendo un’orbita che aveva una diversa inclinazione ed eccentricità.
Paolo Ferri
Quando finalmente i satelliti si sganciano le nostre stazioni hanno problemi, vedono il segnale ma non li vedono dove dovevano essere. Le stazioni, cioè le antenne di terra, all’inizio sono programmate per puntare nella direzione dove il satellite dovrebbe essere. Se il satellite non è proprio lì non sanno dove puntare praticamente, quindi vedevano il segnale ma non sapevano veramente dove fosse, cercavano di agganciarlo eccetera. I satelliti erano due quindi due stazioni che avevano lo stesso problema. I nostri della dinamica del volo, disperati perché li stavamo perdendo, si mettono a cercare di ricostruire l’orbita vera e concludono che eravamo fuori di decine di migliaia di chilometri, roba tipo 10mila chilometri, 4 mila chilometri, forse 5 mila chilometri, una roba del genere, in un’orbita completamente diversa.
Valentina Guglielmo
Non solo non erano dove dovevano essere, quindi, ma forse nemmeno ci potevano arrivare, dotati com’erano di propulsori con potenzialità limitate. L’unica consolazione era che sembravano essere in una condizione di stabilità orbitale, tanto che l’attenzione del team di Esoc si era subito rivolta alla prima operazione necessaria alla loro sopravvivenza: l’apertura dei pannelli solari. Che non andò esattamente come previsto. Sentiamo Ferri.
Paolo Ferri
I satelliti devono aprire i pannelli solari automaticamente. Entrambi i satelliti aprono un pannello e l’altro non si apre. Per fortuna con un pannello sopravvivevano con quel carico di consumo elettrico che avevano in quel momento, quindi sopravvivono. Quindi noi finiamo la giornata con i satelliti in un’orbita sbagliata e senza nemmeno sapere dove fossero, e con un pannello solare aperto e l’altro che non si è aperto. Parliamo con Kourou e quelli dicono che è andato tutto bene. Erano le nove e mezza di sera a quel punto, se mi ricordo bene abbiamo lanciato alle quattro e mezza, segnale acquisito alle sei e mezza, per tre ore eravamo disperati perché stavamo perdendo i satelliti. Questi qua erano lì con un pannello solo, quindi eravamo veramente disperati. Alle nove e mezza quelli della Dinamica del volo hanno trovato la nuova orbita, hanno detto alle stazioni dove puntare e va bene.
La giornata è finita così, nel senso che avevamo l’orbita. I satelliti erano stabili, anche se avevano solo un pannello, però sopravvivevano. Domani si vedrà. Mi ricordo che io dovevo andare a prendere mio figlio a mezzanotte alla stazione di Francoforte e alle undici di sera eravamo lì fuori, per combinazione incontro il Som, l’operations manager, e il direttore di volo, che erano due fumatori e quindi erano lì fuori, che si fumavano una sigaretta. Io stavo andando via e ho detto, “ma sapete che c’avete due satelliti lì nell’orbita sbagliata con un pannello solo?” Cioè, che ci vuoi fare? Intanto stiamo stabilizzando la situazione, questo è normale nel nostro lavoro. Prima vuoi raggiungere una situazione stabile, poi ci pensi, poi dici va bene, adesso sono stabile, ho guadagnato tempo, non ho più questa pressione, questa crisi, ci penso e vediamo che si può fare.
Valentina Guglielmo
Dopo aver stabilizzato la situazione, mi racconta Ferri, ci volle una settimana per trovare una soluzione. I problemi, ricapitolando, erano due. L’orbita sbagliata, e i pannelli solari aperti solamente da un lato.
Per quanto riguarda i pannelli, la causa del malfunzionamento nel meccanismo di apertura era da cercarsi nella loro progettazione. Ferri mi ha spiegato che il meccanismo che consentiva l’apertura automatica dei pannelli si chiamava “thermal knives”, in italiano “coltelli termici”. Sono delle vere e proprie lame tenute ferme da molle in tensione e cavi di nylon. Queste lame sono collegate a un circuito elettrico con delle resistenze che le riscaldano, causando la fusione dei cavi di nylon, che si rompono e lasciano le molle libere di spingere e di aprire i pannelli. A monte di questo circuito elettrico con le resistenze, però, c’era un limitatore di corrente (come il salvavita di cui abbiamo parlato nella scorsa puntata per lo strumento Wec a bordo di Cluster). Bene, il problema era che questo limitatore era stato tarato nel modo sbagliato. Quando si chiudeva l’interruttore che faceva passare corrente nel circuito elettrico, infatti, si creava un picco iniziale di corrente – una cosa che non è infrequente in un circuito, succede anche nelle normali lampadine, dura un attimo e poi si normalizza. In quel caso, però, il picco faceva scattare il salvavita e impediva al thermal knive di funzionare. Come mai aveva funzionato da una parte e dall’altra no? Perché il satellite, da un lato, era più caldo. O almeno questa era l’ipotesi.
Nei giorni successivi, quindi, il team di Esoc ha scritto delle procedure per girare i lati in ombra dei due satelliti verso il Sole, scaldarli un po’ e provare ad aprire i pannelli. Questi tentativi hanno funzionato subito, e i pannelli si sono aperti. Ma come mai, a monte, i satelliti si erano trovati con metà corpo caldo, e metà gelido?
Si trattava di una conseguenza dell’assetto sbagliato che i due satelliti avevano assunto nelle prime fasi di volo, quando il razzo Soyuz, e in particolare lo stadio superiore Fregat, non avevano fatto il loro dovere. Sentiamo Ferri.
Paolo Ferri
Cos’era successo: per un errore di montaggio del Soyuz, proprio di montaggio neanche di design, hanno connesso alcune linee di propellente gelide con altre che invece non lo erano quindi questa connessione termica ha congelato il propellente nello Stadio superiore del Soyuz, il Fregat. Il Fregat doveva fare due cose: doveva cambiare l’assetto poi spingere e doveva anche iniziare una rotazione del vettore. Ora, per la spinta usava altri propellenti, e ha funzionato, ma per il cambiamento di assetto usava questi che si sono congelati e non ha funzionato. Quindi lui ha spinto nella direzione sbagliata, ha spinto 40° via dalla direzione dove doveva andare. È andato in un’orbita completamente diversa e la cosa straordinaria di questa cosa è che lo stesso problema che ha causato l’orbita diversa ha salvato i satelliti, perché se avesse iniziato la rotazione la temperatura si sarebbe distribuita. Il famoso caldo da una parte freddo dall’altra si sarebbe distribuito ugualmente dalle due parti, e molto probabilmente entrambi i satelliti sarebbero stati troppo freddi, non avrebbero aperto i pannelli solari e sarebbero morti di lì a poche ore. Invece grazie al fatto che la rotazione non è iniziata, una parte si è scaldata tanto e quella parte ha ovviato al problema del limitatore di corrente. Il pannello aperto ha salvato il satellite. Poi noi abbiamo aperto l’altro quindi la storia bella è che un guasto del lanciatore ha portato i satelliti nell’orbita sbagliata però li ha salvati perché per design avevano questo piccolo problema. Uno stupido problema che avrebbe potuto ucciderli. Questa è una speculazione, l’ultima cosa che ho detto, perché non abbiamo la certezza che sarebbe successo così però è abbastanza probabile che nessuno dei due pannelli si sarebbe aperto.
Valentina Guglielmo
Ricapitolando, quindi, poche cose sono andate per il verso giusto durante il lancio dei due satelliti Galileo, e per anni non è stato possibile usarli come parte della costellazione per la navigazione satellitare perché si trovavano nell’orbita sbagliata. E con i razzi è così: basta che un lanciatore vada appena appena storto, o che abbia quella che si chiama una underperformance nella spinta o nella direzione, e il risultato finale cambia moltissimo. E soprattutto, possono volerci anni a rimediare. È successo con Galileo, ed è successo anche con la missione Sentinel 1A, lanciata sempre a bordo di un razzo Soyuz lo stesso anno, nell’aprile 2014.
In quel caso, l’underperformance del razzo ha portato il satellite 8km più in basso rispetto all’orbita giusta, dalla quale il satellite avrebbe dovuto osservare il nostro pianeta per monitorare vari ambienti naturali. Questo errore ha causato, innanzitutto, il rischio di scontro con un satellite morto e non più manovrabile, un detrito spaziale per usare un termine specifico. Un rischio che è stato scongiurato con una corsa contro il tempo e un’attivazione record del satellite, che non era ancora pronto a eseguire alcuna manovra, appena arrivato in orbita. E non finisce qui, perché dopo averlo messo in sicurezza ci sono volute altre 500 piccole manovre per arrivare all’orbita giusta. Un passetto dopo l’altro, un aggiustamento dopo l’altro. Un lavoro mastodontico per un piccolo starnuto del razzo durante i primi minuti di volo.
[Inizio musica]
Valentina Guglielmo
La prossima volta che guarderò il lancio di una missione spaziale, sicuramente penserò alle vicende che mi ha raccontato Ferri e avrò un occhio di riguardo per quei razzi che hanno così tanta responsabilità, fra le mani. E ormai sono due puntate che parliamo dei satelliti Cluster, dello strumento Wec che non funzionava, e della tragica esplosione al lancio del 96. Quello che abbiamo solo lasciato intuire è che i quattro satelliti sono stati ricostruiti, dopo l’esplosione, e alla fine sono partiti quattro anni dopo. Tre su quattro sono ancora lì, e attualmente funzionano e vivacchiano in modo un po’ rocambolesco. Come già promesso in questa e nella scorsa puntata, di come stiano sopravvivendo ne parleremo, sempre assieme a Paolo Ferri, nel quindicesimo episodio di Houston, un podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali.
[fine musica]
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