Quella che segue è la trascrizione del dodicesimo episodio di Houston, un podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali. Ideato, realizzato e condotto da Valentina Guglielmo, quest’episodio – pubblicato per la prima volta il primo gennaio 2025 – è dedicato alle missioni spaziali Smart-1 e Ulysses e ha come ospite il fisico Paolo Ferri. Potete ascoltarlo su Apple Podcasts, su Spotify e su YouTube. Oppure direttamente da qui.
Paolo Ferri
Si erano convinti che comunque saremmo incocciati in quel cratere sei ore prima e sarebbe stato imbarazzantissimo svegliare tutti i Vip, i politici, i giornalisti e farli arrivare lì la domenica mattina alle sette e dirgli in realtà siamo crashati sei ore fa, arrivederci.
[inizio musica]
Valentina Guglielmo
Pianificazione dettagliata, calcoli precisissimi, previsioni accurate, analisi dei rischi e tutto sembra sotto controllo. Eppure, per qualche ragione, i problemi riescono sempre a superare i controlli di sicurezza e a decollare insieme alla sonda. Per poi presentarsi in qualunque momento. Al centro di controllo missioni dell’Esa, a Darmstadt, dove si fanno volare telescopi, satelliti e sonde interplanetarie, lo sanno bene. Soprattutto perché ogni nuova missione spaziale è una macchina per l’ignoto, nel senso ingegneristico ma anche scientifico. Un cratere più alto del previsto e una navicella troppo bassa per evitarlo, o una sonda che si muove come una trottola, facendo venire il capogiro a chi sta sulla terra e cerca di tenere fisso lo sguardo per non perderla. Situazioni come queste rischiano di far perdere anni di lavoro, o appuntamenti importanti, con la stampa che scalpita e vuol sapere, politici e dirigenti invitati all’evento e ansiosi di vedere il risultato. Situazioni, queste, che qui chiameremo per nome: Smart-1 e Ulysses. A raccontarle, forse l’avrete riconosciuto, è Paolo Ferri, che queste due storie le ha vissute, molti anni fa, ma le ricorda come fossero accadute ieri.
Io sono Valentina Guglielmo e questo è un podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali. Si chiama, Houston.
[fine musica]
Valentina Guglielmo
Se avete letto il titolo di questo episodio, vi sarete accorti che non riporta il nome di alcuna missione. Questa e la prossima puntata, infatti, saranno un po’ particolari: racconteranno due storie ciascuna, legate da un filo comune e, soprattutto, condannate a un problema irrisolvibile. Aggirato, nascosto, disinnescato, da una soluzione – come dice il titolo – acrobatica. Il filo che lega le due missioni di cui parliamo oggi è quello di essere in qualche modo evase dalla pianificazione che il team dell’Esa aveva preparato per loro. Cominciamo dalla prima protagonista, la missione Smart-1.
[Audio del lancio di Smart-1]
Valentina Guglielmo
Il lancio di Smart-1 è avvenuto con successo nella notte tra il 27 e il 28 settembre 2003, a bordo di un razzo Ariane 5 che trasportava anche altri due passeggeri, i satelliti EBird e INSAT. Le tre missioni sono state inserite nelle loro orbite corrette, che per Smart-1 significava in prima istanza un’orbita geostazionaria attorno al nostro pianeta.
Costruita per essere la prima sonda europea diretta verso la Luna, dunque, Smart-1 doveva ben presto allontanarsi dal campo gravitazionale della terra e venire catturata, invece, da quello del nostro satellite. Ci avrebbe messo circa quattordici mesi per farlo, utilizzando solamente la debole spinta di un nuovo sistema di propulsione elettrica. Smart-1, infatti, prima di essere una missione scientifica, era un dimostratore tecnologico. La Luna si trova a circa 385 mila chilometri dalla Terra e per percorrerli, questa navicella di 367 chili, non ha seguito un percorso rettilineo. Ha spiraleggiato verso di essa allargando sempre di più l’ellissi della sua orbita attorno alla Terra, fino a una distanza alla quale ha prevalso l’attrazione gravitazionale della Luna, che l’ha catturata. A fronte dei 385 mila chilometri di distanza fra il pianeta di partenza, la Terra, e il satellite di arrivo, la Luna, Smart-1 ha percorso circa 100 milioni di chilometri, l’equivalente di un viaggio interplanetario. Follia? No, economia. Spinta dalla debole forza propulsiva di cui disponeva, e di cui parleremo fra un attimo, era questo il modo più intelligente ed economico per mettersi in orbita attorno al nostro satellite naturale.
Paolo Ferri
Smart-1 è stata l’unica missione lunare dell’Esa, tra l’altro. Smart-1, in effetti, era una missione lunare per caso, perché l’obiettivo era di testare la propulsione ionica, la propulsione solare elettrica, che tra l’altro è quella che oggi è usata in tantissimi satelliti e viene usata anche dalla nostra sonda BepiColombo che è in viaggio verso Mercurio.
Però allora era, stiamo parlando dell’inizio degli anni 2000, era ancora, diciamo, una cosa sperimentale. Quindi l’Esa fece questa missione per verificare in volo la propulsione ionica.
Valentina Guglielmo
Smart-1, lo dicevamo prima, era per metà un dimostratore tecnologico, e per metà una missione scientifica di osservazione della Luna. Non solo è stata la prima e unica sonda europea a mettersi in orbita attorno al nostro candido satellite, ma come dice Ferri è stata la prima prova di utilizzo della propulsione ionica, un sistema che oggi alimenta altre sonde che raggiungono distanze ben maggiori. Come la missione BepiColombo dell’Esa, che appena un mese fa, a inizio dicembre, ha eseguito il suo quinto flyby su Mercurio, pianeta attorno al quale si inserirà in orbita nel 2026.
Tornando a Smart-1, comunque, dei suoi 367 chili circa 82 erano di propellente, in forma di gas xeno ad elevata pressione. Servivano a far funzionare il primo propulsore ionico al plasma: la sonda era dotata di pannelli fotovoltaici che alimentavano un campo elettrostatico che serviva ad accelerare gli ioni di xeno ad alta velocità e ad espellerli dal corpo della sonda. Come quando ci si tuffa da un materassino al mare, la fuoriuscita di ioni induce una reazione uguale e contraria sulla sonda, spingendola nella direzione opposta a quella degli ioni. Un sistema, questo, che a livello di spinta non è nemmeno lontanamente paragonabile ai razzi chimici convenzionali, ma che risulta molto efficiente in ambiente spaziale.
Né breve, né corta, dunque, la navigazione di Smart-1 verso il suo obiettivo. Tuttavia, estremamente efficiente in termini energetici. Quando fu catturata dalla gravità della Luna, nel novembre 2004, aveva usato solamente 60 litri di carburante. Cominciava a quel punto un percorso orbitale al contrario, rispetto a quello che l’aveva allontanata dalla terra, che la vedeva spiraleggiare con orbite ellittiche via via più strette per avvicinarsi al nostro satellite. Fino ad arrivare, il 27 febbraio 2005, a circa 300 chilometri dalla sua superficie, finalmente nella sua orbita operativa con un periodo di circa cinque ore.
Inizialmente programmata per terminare nell’agosto 2005, Smart-1 è stata poi prolungata fino ad agosto 2006, e durante la sua permanenza in orbita ha potuto dedicarsi ai suoi obiettivi scientifici, come studiare la topografia e la struttura superficiale della Luna e anche la distribuzione dei minerali sulla sua superficie.
Il 17 settembre 2005, il motore ionico è stato acceso per l’ultima volta esaurendo tutto il propellente. Al momento dell’ultimo sparo, aveva funzionato per ben 4.958,3 ore, stabilendo il record di durata di funzionamento nello spazio per un motore di questo tipo.
Senza più propellente, Smart-1 a quel punto aveva un destino segnato: un’orbita naturale determinata solo dalla gravità lunare, dalle influenze gravitazionali della Terra e del Sole e dall’uso occasionale dei propulsori di controllo dell’assetto. Senza soffermarci troppo su questa fase, mandiamo avanti il nastro fino al suo esito: lo schianto contro la superficie della Luna, in una regione ben visibile da Terra.
Paolo Ferri
Quando a un certo punto ha esaurito il propellente ha cominciato a scendere a spirale sulla Luna. La Luna non ha l’atmosfera, quindi uno dice “va bene, non ha l’attrito, quindi resta in orbita”, ma in realtà la Luna ha una distribuzione di gravità molto molto irregolare che tra l’altro diede tanti problemi alle missioni di atterraggio lunare perché non era conosciuta, mentre adesso il campo gravitazionale lunare è mappato molto meglio. Per cui, insomma, il campo gravitazionale alla fine ti tira giù, in qualche modo, perdi energia e piano piano, spiraleggiando, scendi e ti schianti sulla Luna. Quindi stava succedendo questo a Smart-1 alla fine. Continuavamo a fare scienza fino alla fine, erò era previsto, praticamente un paio di mesi dopo che io sono diventato responsabile della missione, era previsto che finisse. Il momento dello schianto non potevamo neanche controllarlo perché appunto avevamo finito il propellente, però lo avevamo calcolato. I nostri di Flight Dynamics avevano calcolato molto precisamente le sette di domenica mattina 3 settembre 2006.
[rumore di uno schianto]
Valentina Guglielmo
Fino a qui, sembrerebbe una missione da manuale. Tanto che, per assistere al gran finale, ovvero alla perdita di segnale programmata per le 7 del mattino di domenica 3 settembre 2006, al centro di controllo missioni dell’Esa, a Darmstadt, erano stati invitati tutti: direttori, giornalisti, politici e personaggi di varia importanza. Ma, ed ecco il vero motivo per cui stiamo parlando di Smart-1 in questa puntata, si palesa il primo scoglio da superare. Sentiamo Ferri.
Paolo Ferri
Bene, calcolato il giorno del crash, l’ESA decide di fare un piccolo evento, chiama i giornalisti, chiama i vari direttori, se vogliamo i VIP, eccetera, per assistere alla fine della missione, domenica mattina alle 7. Io ero appunto da poco capo divisione delle missioni interplanetarie e Smart-1 non è interplanetaria in senso stretto, però, insomma, andava via dalla Terra. Quindi, era sotto la mia responsabilità. E quindi vengo coinvolto nella pianificazione dell’evento. Il venerdì sera stavo andando a casa, mi chiamano nella briefing room, perché la fase finale avevamo deciso di inscenarla nella sala controllo principale perché era una scena un po’ più bella da far vedere ai giornalisti, eccetera. Non è che ci servisse la sala controllo principale perché noi eravamo abbastanza passivi, però avevamo deciso di trasferirci lì e il venerdì appunto ci si trasferiva lì in preparazione della domenica mattina. Mi chiamano nella briefing room e ci sono tutti quelli del team di Smart-1 e mi dicono: “abbiamo un problemino”. Cos’era successo? Smart era su un’orbita di circa 6 ore e scendendo a spirale praticamente le ultime orbite erano bassissime e a quei tempi. Sembra strano, ma la morfologia della superficie della Luna era conosciuta con un’accuratezza ridicola: praticamente si aveva l’altitudine di quadrati da un chilometro, ma non si sapeva cosa ci fosse dentro in questi quadrati. Per cui in quella giornata uno scienziato americano che aveva le sue carte della superficie lunare aveva chiamato i suoi contatti di Flight Dynamics e aveva detto: “guardate che – ci ha fatto vedere la mappa della Luna e ce l’ho ancora davanti ai miei occhi – non crasherete domenica mattina alle 7 su questa montagna (era una montagna di circa un chilometro di altezza) ma secondo me crashate l’orbita precedente e andate a cozzare contro l’orlo di questo cratere 6 ore prima, quindi all’una del mattino. Ovviamente con qualche imprecisione però lui era convinto di quello, secondo lui aveva carte migliori…la nostra orbita la conoscevamo bene non è che dubitassimo di quello, però non sapevamo bene quante erano alte le montagne della Luna.
[rumore di uno schianto stile cartoon]
Valentina Guglielmo
Uno scoglio vero e proprio, e pure bello alto, quello che doveva superare Smart-1. Il problema, l’abbiamo appena sentito, era che sei ore prima del momento programmato per l’impatto, la sonda avrebbe potuto schiantarsi contro un’altra montagna, che non era stata segnalata perché all’epoca si aveva una conoscenza poco dettagliata della topografia della Luna. Propellente non ce n’era più, quindi l’orbita non poteva essere modificata. Né poteva essere riprogrammato l’evento a poche ore di distanza, durante il weekend e con persone già in viaggio. Propellente non ce n’era, dicevamo, ma c’era un piccolo serbatoio di azoto che veniva utilizzato dalla sonda, di tanto in tanto, per scaricare il momento angolare accumulato dalle ruote di reazione. Se avete ascoltato gli episodi precedenti di Houston saprete di cosa stiamo parlando: sono quelle ruote che servono per controllare l’assetto di una sonda o per mantenere precisamente il puntamento, e che vengono periodicamente scaricate quando raggiungono la velocità massima di rotazione. Per farlo, occorre utilizzare un sistema propulsivo che le sostituisca temporaneamente mentre rallentano.
Paolo Ferri
Questo succede su tutti i satelliti. Le ruote di reazione controllano l’assetto, però piano piano, se ci sono delle forze perturbative esterne, accumulano momento angolare. Insomma, diciamo, accelerano, accelerano, accelerano e a un certo punto bisogna scaricare questo momento. Per scaricarlo devi appoggiarti a qualcosa, se no nello spazio quando rallenti la ruota ti gira il satellite. Allora tu devi trovare un modo di rallentare la ruota tenendo fermo il satellite. Come fai? Spari con un piccolo propulsore mentre rallenti la ruota: praticamente è come tenere fermo il satellite da una parte, la ruota rallenta e si scarica il momento.
Valentina Guglielmo
Quindi, Smart-1 aveva questo piccolo serbatoio di azoto in cui c’era rimasto ancora qualcosina. Il team di dinamica del volo che si era messo alla ricerca di una soluzione ipotizzò che, girando in maniera opportuna la sonda e sparando tutto l’azoto rimasto, si riuscisse ad alzare la traiettoria di Smart-1 di 200 metri, consentendogli di schivare il cratere precedente senza mancare però la montagna sulla quale si sarebbe dovuto schiantare nell’orbita successiva, alle 7 del mattino.
Paolo Ferri
Il loro calcolo era che abbassavamo il rischio di crashare 6 ore prima aumentando il rischio di non crashare 6 ore dopo, però di poco. Insomma, un po’ un gioco delle probabilità se vogliamo. Erano convinti che comunque andasse fatto, perché si erano convinti che comunque saremmo incocciati in quel cratere 6 ore prima e sarebbe stato imbarazzantissimo svegliare tutti i VIP, i politici, i giornalisti, farli arrivare lì la domenica mattina alle 7 e dirgli “in realtà siamo crashati 6 ore fa, arrivederci”. E sono quelle situazioni in cui poi si voltano tutti verso di me, e io tra l’altro ero un novellino di tutta la missione eccetera. C’avevo Rosetta che volava, c’erano le mie cose, non sapevo niente di Smart-1. Alla fine loro discutono, poi si voltano e dicono “allora che facciamo? Decidi”. Proviamo, cosa volete che vi dica. Facciamo di tutto per evitare quella cosa e se poi anche alle 7 manchiamo la montagna va bene, ci inventeremo qualcosa. Certo non è stato uno dei miei weekend più tranquilli. Appunto ero nuovo in quella posizione lì e alla fine alla domenica mattina ci siamo presentati lì, ovviamente non ho dormito quella notte perché io volevo sapere che all’una non avevamo incocciato il cratere. Loro erano molto convinti che l’avrebbero evitato, erano già convinti prima che chiamasse lo scienziato. Comunque, all’una è sopravvissuto il satellite e poi siamo stati lì. Loro avevano un orario molto preciso in cui saremmo andati a cozzare contro questa montagna, e lì era proprio sicuro: o sì o no. Quindi quando il secondo è scattato, è sparita la telemetria.
Valentina Guglielmo
Dopo poco meno di tre anni dal decollo, il 3 settembre 2006 alle 07.42 ora locale a Darmstadt, Smart-1 si è schiantata contro una parete sopraelevata in un luogo chiamato Lacus Excellentiaie, in italiano il Lago dell’Eccellenza, a 46,2 gradi di longitudine ovest e 34,3 gradi di latitudine sud. Ci è arrivata a una velocità di circa 7200 chilometri all’ora, creando una nube di polvere visibile dai telescopi terrestri. I tanti occhi e le tante antenne in attesa, quella domenica mattina, hanno osservato lo sbuffo di materiale lunare causato dallo schianto. Potete trovare in internet delle Gif animate ottenute componendo le immagini del Canada-France Hawaii Telescope, il Cfht, in cui si vede il lampo prodotto dall’impatto e la nuvola di polvere che si disperde in seguito.
Paolo Ferri
Un altro esempio di come appunto con le operazioni si risolvono le cose usando sistemi che non sono stati progettati per quello: hanno cambiato l’orbita con questo azoto che non aveva nessun senso. Non era stato previsto per cambiare l’orbita. Ed è anche un esempio sempre della genialità dei nostri della Dinamica del volo, che se ne inventano sempre di cose straordinarie. Mi ricordo mentre contavo i secondi, perché sapevo che sarebbe avvenuto entro un secondo e non era una questione di dire “oddio, adesso un minuto, due minuti così”. Quindi c’era stata un po’ di tensione, però alla fine del segnale radio la stazione chiama e dice “non ho più segnale radio”, la telemetria si blocca sui tuoi schermi, e questo era chiarissimo, poi tutti che applaudono, qualcuno triste. Io non ero neanche triste perché non avevo nessun legame con questa missione, anzi ero contento, ero sollevato. Ero contento che si fosse tolta di mezzo in modo elegante dopo avermi creato quel problema lì. Ma ovviamente c’era un team che ci aveva lavorato tanti anni, e io ho vissuto molte fine di missioni, sono sempre momenti molto tristi. Però almeno per me è stato più un sollievo che una tristezza in quel caso.
[stacco musicale]
Valentina Guglielmo
Nel 2006, quando Ferri si trovò a decidere le sorti di Smart-1, c’era un’altra missione molto particolare che si avviava alla conclusione. Si chiamava Ulysses, era una missione di proprietà congiunta fra Esa e Nasa e terminò nel 2009. Ferri, in quanto capo divisione per le missioni interplanetarie, la seguì da vicino negli ultimi tre anni. Come Smart-1, anche Ulysses detiene un primato nell’esplorazione europea: è stata infatti la prima sonda dell’Esa ad essersi avvicinata a Giove, non per studiarlo come farà la missione Juice di cui abbiamo parlato nell’ottava puntata di Houston, ma per sfruttarlo come fionda gravitazionale per alzarsi dal piano dell’eclittica solare e guardare il Sistema solare da nuovi punti di vista.
[inizio musica]
L’eclittica è il piano su cui, più o meno, giacciono tutti i pianeti che ruotano attorno al Sole. Vista dalla Terra, l’eclittica è definita come il percorso apparente che la nostra stella compie in un anno, che non è altro che lo specchio del moto di rivoluzione del nostro pianeta attorno ad essa. Ma la Terra non è sola, in questo piano, perché come dicevamo la maggior parte dei pianeti del Sistema solare si muove sullo stesso. L’orbita di Mercurio è quella che si discosta di più dal piano ed è inclinata di appena 7° sull’eclittica. Poi c’è Venere, inclinato di 3,4°, e Saturno inclinato di 2.5°. Per tutti gli altri pianeti, fra cui la Terra, l’inclinazione è minore di 2°. La ragione per cui il Sistema solare ha questa configurazione va ricercata nella sua origine. Quando hanno iniziato a prendere forma il Sole e agli altri pianeti, dal collasso di una nube di gas e polveri in rotazione, le due forze in gioco – ovvero forza centrifuga della rotazione e forza gravitazionale del collasso della nube – hanno trovato bilanciamento in un disco, il piano dell’eclittica appunto. Per questo, quasi tutto ciò che si trova nel Sistema solare, giace su questo piano e ruota nello stesso verso.
[fine musica]
Ma se tutti i pianeti, gli asteroidi, e il Sole, si trovano sull’eclittica, qual è il senso di alzarsi da questa?
Paolo Ferri
In effetti fuori dal piano dell’eclittica ci sono pochi oggetti, non ci sono pianeti, non ci sono lune, eccetera. Anche gli asteroidi, la maggior parte sono sul piano dell’eclittica, le comete hanno orbite completamente, diciamo, casuali, arrivano un po’ da tutte le direzioni. Però c’è appunto l’eliosfera, cioè lo strato esterno dell’atmosfera solare che avvolge tutto il Sistema solare, ma lo avvolge in tre dimensioni; quindi non solo sul piano dell’eclittica, ma si espande anche nelle parti nord e sud. Quindi è tridimensionale, non è un disco, mentre la maggior parte delle altre cose sta sul disco attorno all’eclittica
[Audio di Edgar Page, science coordinator al Jpl della Nasa]
“For years since the beginning of the space age we have looked forward…[doppiaggio]
Per anni, dall’inizio dell’era spaziale, abbiamo atteso con ansia di poter sorvolare i poli del Sole e vedere cosa c’è. Tutte le navicelle spaziali prima di questa si sono limitate a osservare una regione molto stretta vicino all’equatore del Sole. E si può immaginare quanto poco sapremmo della Terra se fossimo stati costretti a rimanere entro 10 gradi dall’equatore terrestre… Quindi c’è una sorta di lacuna nella nostra conoscenza che ci obbliga, in quanto persone curiose o scienziati almeno onesti, ad andare a scoprire cosa c’è nelle regoni polari della nostra stella.
Valentina Guglielmo
In questa conferenza stampa del 1994 Edgar Page, il coordinatore scientifico di Ulysses alla Nasa, spiega perché c’è così tanto interesse a uscire dal piano dell’eclittica per osservare il Sole, nonostante le difficoltà tecniche. Uscire dal piano dell’eclittica e osservare il Sistema solare da fuori significa quindi poter vedere meglio alcune componenti fisiche che lo percorrono e lo avvolgono, come il vento solare, e l’eliosfera.
Ulysses, il cui nome richiama all’audacia di Ulisse nell’Odissea, visto che entrambi si sono spinti in territori fino a quel momento del tutto inesplorati, aveva quindi lo scopo di studiare l’eliosfera interna, il vento solare e “guardare” il Sole da angolazioni nuove.
[inizio musica]
Il vento solare è un flusso di particelle cariche, principalmente elettroni e protoni, che il Sole soffia nel Sistema solare. Arriva anche sulla Terra e può causare tempeste geomagnetiche che disturbano i satelliti, le comunicazioni, e gli astronauti in orbita. Ulysses ne ha studiato la composizione chimica, la velocità, e la direzione, realizzando una vera e propria mappa tridimensionale dello spazio vicino al Sole, l’eliosfera interna appunto. Ma cominciamo dall’inizio, e sentiamo il racconto di Ferri.
[fine musica]
[Audio del lancio di Ulysses]
Valentina Guglielmo
Dopo il lancio, avvenuto a bordo dello Space Shuttle Discovery il 6 ottobre 1990, Ulysses si è diretto verso Giove, raggiungendolo in due anni. Il piano era di sfruttare l’intenso campo gravitazionale del pianeta più massiccio del Sistema solare per piegare la traiettoria del satellite e uscire dal piano dell’eclittica. Si tratta a tutti gli effetti di una fionda gravitazionale, ma diversamente da quelle che abbiamo menzionato nelle altre puntate, questa non doveva accelerare il satellite, ma spingerlo a cambiare direzione. Ulysses è quindi finito “sotto” il piano dell’eclittica in un’orbita inclinata di quasi 80 gradi. Il suo viaggio, a quel punto, ricominciava da Giove e si dirigeva verso il Sole, dove giungeva in corrispondenza del polo sud della stella in circa due anni, le girava attorno sorvolando anche il polo nord e tornava infine verso Giove per chiudere il giro. Ogni giro, cioè ogni orbita, durava circa sei anni.
Ulysses sopravvisse numerosissimi anni, battendo il record di longevità detenuto allora. All’inizio della sua carriera però, questa missione sperimentò un problema abbastanza singolare.
Il corpo di Ulysses era semplicemente una scatola di 3×3.3×2 m. Su di essa erano montati un’antenna parabolica di 1,65 m di diametro, e un generatore termoelettrico a radioisotopi.
Dal corpo poi si estendevano delle lunghe antenne dedicate a diversi strumenti.
Paolo Ferri
Nella fase di crociera verso Giove, a un certo punto questa sonda aveva dispiegato dei bracci che servivano per portare alcuni dei suoi strumenti lontani dal corpo della sonda, per evitare di avere interferenze elettromagnetiche causate dagli strumenti della sonda. E a un certo punto, diciamo il sintomo, a un certo punto la sonda cominciò ad avere un effetto di nutazione, quindi di oscillazione un po’ conica rispetto all’asse di rotazione e una serie di oscillazioni lungo questa conicità; e questo angolo di oscillazione continuava ad aumentare. La cosa era veramente molto preoccupante perché non si riusciva a mantenere l’assetto e si perdeva persino la comunicazione perché l’antenna di Ulysses era fissa sul corpo del satellite. Quasi subito si capì che il problema era di natura termica: uno di questi bracci, che era molto esteso, in certe configurazioni e quindi a certe distanze dal Sole e con certi angoli di illuminazione, veniva illuminato in parte dal Sole e in parte restava in ombra della sonda. E questo dava delle distorsioni termiche che durante la rotazione cambiavano in continuazione. Cominciava ad oscillare e l’energia che assorbiva termicamente si trasmetteva alla rotazione della sonda e la faceva oscillare sempre più su un angolo sempre più alto. Insomma, non c’era modo di controllare il braccio. Era lì, era chiaro che l’energia di questa nutazione che aumentava doveva venire da qualche parte e non c’era niente lì che sparava e che poteva aumentare questo angolo; l’unica poteva essere l’energia termica, e quindi alla fine sono andati a vedere le parti esposte al sole e a quel punto quindi non ci è voluto tanto a capirlo. La prima cosa era cercare di fermare la rotazione e tutti si concentrarono su quello.
Valentina Guglielmo
La nutazione, questo movimento a trottola di Ulysses che andava via via aumentando in alcuni periodi, tipicamente quelli in cui la sonda orbitava vicino al Sole, non era un problema risolvibile. Non si poteva ritrarre il braccio che la causava perché ospitava uno strumento scientifico. Né si poteva evitare il surriscaldamento. Bisognava quindi gestire questa nutazione in modo da arrestarla, ogni volta che si presentava, il prima possibile. L’idea che venne al team di controllo della missione prevedeva l’utilizzo di uno strumento inventato per altro scopo. Nonostante Ulysses fosse stato costruito negli anni ’80, con la logica di bordo fissa nei circuiti elettronici del satellite e pochissimi elementi riprogrammabili da terra, era dotato di un piccolo processore chiamato CONSCAN che controllava il segnale dell’antenna ad alto guadagno, per determinare se la direzione di puntamento verso la terra fosse ottimale, ed eventualmente correggere il tiro in modo automatico. In pratica, questo strumento misurava l’intensità del segnale radio percepito dalle stazioni di terra, e se il segnale scendeva sotto il valore massimo registrava lo spostamento dell’antenna dalla direzione di puntamento ottimale. Per correggere l’offset si serviva di piccoli propulsori ad hoc, che agivano sparando brevi impulsi per riportare la sonda nella posizione corretta. In verità, questo metodo non era mai stato utilizzato perché la correzione poteva essere effettuata anche a mano dagli operatori di terra.
Paolo Ferri
Quindi un sistema abbastanza primitivo, implementato a bordo per quello, per comodità: invece di comandare quest’operazione ogni tanto da terra lo puoi far fare automaticamente alla sonda. Mai fatto. Però in questo caso tornò utilissimo perché la nutazione ci faceva deviare dal puntamento e quindi il team decise di provare questo programma in una condizione completamente diversa e vedere se funzionava. E in effetti riuscì a funzionare, quindi questo programma ogni tanto lo accendevano, azionava questi propulsori per riportare l’antenna nella parte centrale, poi la nutazione riaumentava e la riportavano indietro. Quindi hanno usato questo sistema per venire fuori da quella situazione. Era una situazione stagionale nel senso che appunto dipendeva dalla distanza dal Sole: dovevi essere abbastanza vicino al Sole per cui il flusso termico fosse elevato e anche avesse l’inclinazione giusta. Quindi dopo poche settimane il problema piano piano si è attenuato ed è andato via, però sapevamo che sarebbe ritornato, anzi era prevedibilissimo. Una volta capito, poi c’è voluto molto più tempo per analizzare tutta la situazione e fare un modello della nutazione, che tra l’altro funzionò benissimo e prevedeva il ritorno di questo problema e l’intensità con molta accuratezza, con un errore al massimo di una settimana.
Quindi ogni qualche anno succedeva di nuovo, in questa orbita di 5-6 anni, e bisognava risolverlo e il Conscan – questo programma a bordo – funzionava benissimo, ma necessitava di un segnale continuo da terra. E questo era il problema perché la terra gira, questo coso era lontanissimo e quindi non è che ci sono stazioni dappertutto sempre a disposizione per mandare continuamente il segnale. Quindi negli anni successivi la soluzione era stata trovata: usare Conscan e basta, ma la difficoltà era – nella fase nella stagione prevista che durava qualche settimana di nutazione, forse anche qualche mese – andare in giro per il mondo a trovare stazioni che fossero disponibili per mandare continuamente un segnale a Ulysses. Questo mi ricordo che era ancora valido quando ho preso io la responsabilità di Ulysses. A quel punto la missione era molto vecchia, la Nasa non voleva più neanche spendere troppi soldi e aveva le sue stazioni impegnate e quindi ci hanno chiesto di usare le nostre, che nel frattempo stavano arrivando. E tra l’altro lì non è che puoi usare tutte le stazioni perché questa sonda volava appunto perpendicolare al piano dell’eclittica e quindi tante volte avevi bisogno delle stazioni in posizioni non tipiche di quelle interplanetarie che stanno più o meno sull’equatore. Quindi era un problema anche geografico, abbiamo usato anche Kourou che è una stazione di 15 m e non è una stazione interplanetaria, però per fortuna Il problema avveniva quando Ulysses era abbastanza vicino al Sole quindi insomma in qualche modo siamo riusciti sempre a risolvere la cosa; però ci ha perseguitato per tutta per tutta la missione. Un problema di design termico che con un po’ più di analisi avrebbero potuto scoprire. Però queste cose succedono, soprattutto nella parte termica, di sorprese ce ne sono sempre.
Valentina Guglielmo
Una domanda: questo Conscan, io immagino che per il suo scopo iniziale correggeva una lenta deriva che portava l’antenna a non essere più ben allineata con la Terra, no? Invece una nutazione è un movimento un po’ più veloce e non ha bisogno della stessa correzione, mi vien da dire. Cioè, è una correzione più veloce che si deve ripetere in un modo diverso, credo.
Paolo Ferri
Sì, questo era il problema, è vero. Ed è il motivo per cui all’inizio non si era sicuri che Conscan avrebbe funzionato bene, ed è il motivo per cui la nutazione andava presa il più presto possibile per continuare a mantenere l’angolo di nutazione basso. Perché se l’angolo di nutazione fosse stato sempre più elevato, in realtà il problema non è tanto il fatto che il coso girava, ma proprio l’angolo di nutazione che andava preso al più presto possibile. Per questo non ci si poteva permettere mai dei gap molto grandi nel segnale di uplink, perché a quel punto avremmo lasciato l’angolo crescere enormemente e Conscan non sarebbe più stato in grado di lavorare bene.
Valentina Guglielmo
In sostanza, nelle stagioni di massima esposizione al Sole, cioè in alcune fasi dell’orbita di Ulysses, bisognava periodicamente effettuare un reset del movimento di nutazione utilizzando questi piccoli attuatori comandati da Conscan; dopodiché questo movimento inevitabilmente ripartiva, ma veniva sempre arrestato prima che raggiungesse angoli di nutazione (cioè movimenti conici) troppo ampi. Così, Ulysses divenne una delle missioni più longeve nella storia dell’Agenzia spaziale europea, e sopravvisse nella sua orbita unica e particolare fino al 2009, quasi trent’anni.
Il fatto che un tempo la logica di bordo non fosse riprogrammabile ma fissa nell’hardware dei circuiti elettrici del satellite cominciava a costituire un problema, soprattutto di fronte a imprevisti e malfunzionamenti che avrebbero richiesto azioni dirette sul controllo della sonda e sul suo funzionamento. Tanto che un po’ alla volta, seguendo l’evoluzione della tecnologia, si cominciò a preferire computer controllabili e riprogrammabili da terra. Dettagli, questi, che potrebbero sembrare meno avvincenti rispetto ad altre storie raccontate in questo podcast, ma che sono comunque rilevanti per capire come funzione – e non funziona – davvero il mondo delle missioni spaziali. E la transizione tra logica fissa nell’hardware e computer riprogrammabili all’ESA è avvenuta proprio con una delle due missioni di cui parleremo nel prossimo episodio, ExoSat. Appuntamento, dunque, il mese prossimo con la seconda parte di “soluzioni acrobatiche a problemi irrisolvibili”, la puntata numero 13 per Houston, il podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali.
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