Quella che segue è la trascrizione del nono episodio di Houston, un podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali. Ideato, realizzato e condotto da Valentina Guglielmo, quest’episodio – pubblicato per la prima volta il primo ottobre 2024 – è dedicato al telescopio spaziale Xmm-Newton dell’Esa e ha come ospiti il fisico Paolo Ferri e l’astrofisico Stefano Ettori. Potete ascoltarlo su Apple Podcasts, su Spotify e su YouTube. Oppure direttamente da qui.
Paolo Ferri
“Quindi uno stupido commutatore ha rischiato di uccidere la missione nel 2008, solo 8 anni dopo il lancio, facendoci perdere almeno 15 anni di scienza preziosissima”
[inizio musica]
Valentina Guglielmo
Il telescopio a raggi X Xmm-Newton, che d’ora in poi chiameremo semplicemente Xmm, è un satellite in orbita dagli anni ’90, di proprietà congiunta fra Esa e Nasa; ed è, pensate, il più vecchio ancora funzionante controllato dal centro di controllo dell’Esa, a Darmstadt. È stato lanciato il 10 dicembre 1999 e da allora si muove, attorno alla Terra, su un’orbita ellittica molto eccentrica, comunicando attraverso le stazioni radio di Perth, in Australia, Kourou, in Guiana Francese, di Villafranca, in Spagna, e Santiago, in Cile. Xmm è un satellite che, nel corso della sua lunga carriera ha dato davvero poco da fare agli operatori dell’Esa: mai un guasto, mai un imprevisto, mai un problema. Tranne una volta, nel 2008, in cui ha smesso di comunicare, di punto in bianco, per circa tre giorni. A cavallo del weekend, e nel punto più vicino alla Terra. Questa breve vicenda ce la racconta Paolo Ferri, che al centro di controllo dell’Esa ha sempre lavorato alle missioni interplanetarie – cioè quelle che si allontanano dalla Terra – ma che è stato coinvolto nella vicenda di Xmm, che orbitando attorno alla terra viene gestito in un altro dipartimento del centro di controllo, proprio perché, per cercare di recuperare il satellite, occorreva prendere in prestito l’esperienza e le procedure solitamente impiegate nella comunicazione con lo spazio profondo.
Io sono Valentina Guglielmo e questo è un podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali. Si chiama Houston.
[fine musica]
Valentina Guglielmo
Sabato 18 ottobre 2008, il telescopio Xmm era in volo da circa nove anni; io invece ero in quarta liceo, e non potevo immaginare che qualcuno in quei giorni stesse tentando di salvare quel telescopio a raggi X che avrebbe fatto la mia tesi di dottorato. Tesi che avrei cominciato non prima di sei anni dopo. A dire il vero, all’epoca nemmeno sapevo che avrei studiato astrofisica, e quel sabato pomeriggio di ottobre, con ogni probabilità, ero in un qualche palazzetto a giocare a pallavolo.
Comunque, nel 2008 Xmm aveva quasi raggiunto l’obiettivo della sua missione in orbita, che era fissato a dieci anni dal lancio. Abbiamo detto che si tratta di un telescopio che osserva nelle frequenze dei raggi X. Ma cosa significa, esattamente? Un telescopio che deve captare lunghezze d’onda così brevi e così energetiche come quelle dei raggi X non ha una costruzione analoga ai classici telescopi ottici. Non ci sono specchi riflettenti che fanno convergere la luce verso un rivelatore posto sul piano focale. Né si può rimanere sulla Terra per vederli, i raggi X, perché fortunatamente l’atmosfera blocca i fotoni a queste lunghezze d’onda così brevi.
Xmm-Newton è formato da un tubo lungo 10 metri alla base del quale si aprono 16 metri di pannelli solari. Per diversi anni ha mantenuto il primato fra i satelliti scientifici europei per dimensione e, diversamente dai telescopi classici, anche il suo design ottico è originale.
I 3 specchi di Xmm-Newton ricordano dei barili cilindrici alti circa 60 cm, ognuno dei quali è costituito da 58 cilindri concentrici annidati uno nell’altro come tante matrioske e formati da un sottilissimo strato d’oro depositato su uno strato di nickel. La loro superficie è talmente levigata da presentare imperfezioni non più grandi delle dimensioni di qualche atomo. La luce in arrivo non incide perpendicolarmente agli specchi per essere riflessa, come succede nel cammino ottico di un telescopio tradizionale, ma – per essere catturati – i raggi X arrivano sugli specchi quasi parallelamente alla loro superficie. Quel poco che serve per deviarli leggermente nel loro cammino e metterli a fuoco sugli strumenti di raccolta. Grazie a questi particolarissimi “occhi”, Xmm-Newton non solo scatta immagini del cielo a raggi X, ma è in grado anche di distinguere i raggi X a seconda della loro energia, funzionando in modo simile a un prisma che scompone la luce bianca nei vari colori che la compongono.
[estratto audio dal servizio video dell’Esa sulle prime immagini di Xmm-Newton]
Quello che avete sentito è l’annuncio delle prime immagini ottenute con Xmm. Mostrano, dice il giornalista, parti dell’universo che non erano mai state viste prima, grazie agli occhi a raggi X del telescopio. Cosa si vede, quindi, se puntiamo un telescopio a raggi X in qualunque direzione dell’Universo? Ho chiesto a un collega astrofisico dell’Istituto nazionale di astrofisica di Bologna, Stefano Ettori, che ha fatto dei raggi X (e degli oggetti estremi che li emettono nell’universo) il proprio pane quotidiano, di spiegarlo.
Stefano Ettori
Allora, tu lo punti, ed è quello che ha fatto Giacconi con Uhuru e poi con l’Einstein Observatory, e poi con Chandra e poi con Xmm, tu lo punti nel cielo e cominci ad osservare tante sorgenti puntiformi e un po’ di sorgenti estese. Vedi stelle immediatamente, vedi il Sole – peraltro il Sole cerchi sempre di evitare perché è la sorgente X più forte per emissione, non tanto per le sue proprietà intrinseche ma per il fatto che è qua dietro l’angolo. E nel caso del sole quello che vedi è l’emissione dalla corona di plasma caldo, che emette con temperature nell’ordine dei milioni di gradi; quando arrivi a queste temperature semplicemente l’eccitazione degli atomi produce raggi X. E poi quello che incominci a vedere è, sempre nell’ambito delle sorgenti puntiformi, gli Agn, cioè in pratica l’attività di un buco nero o di una stella neutroni, e in questo caso vedi o sistemi binari o veri e propri Agn cosmici – che altro non sono che l’effetto della caduta di materiale in prossimità di una stella neutroni nel caso di stelle binarie, o in prossimità di un buco nero per quanto riguarda i nuclei galattici attivi degli Agn, appunto. Poi cominci a vedere cose più diffuse che possono essere i resti dell’esplosione di supernove, i cosiddetti supernova remnants, che sono il lascito di un’esplosione di una stella e quello che rimane è materiale plasma caldo che ancora emette con proprietà osservabili sia nell’ottico che nei raggi X. Tant’è vero che subito dopo Scorpius X-1, la sorgente successiva che è stata immediatamente identificata nella metà degli anni Sessanta, (era stata la Crab Nebula. La Crab Nebula è la nebulosa del Granchio, un supernova remnant, appunto il resto di una supernova. Poi quello che vedi sempre come emissione diffusa è il plasma caldo in oggetti collassati, ma su scale molto grandi, che sono i gruppi e gli ammassi di galassie. Una scoperta, peraltro, delle osservazioni fatte negli anni Ottanta è che questi ammassi di galassie hanno stelle in galassie, tante, però la componente dominante in termini di barioni, cioè in termini di materia normale che siamo abituati a trattare, sta nel plasma caldo che emette nei raggi X. Non sono nelle stelle che vediamo in galassie, ma è in questa componente diffusa e un po’ evanescente che riusciamo a risolvere soltanto con osservazioni nei raggi X, perché è un plasma nell’ordine dei dieci milioni di gradi, a densità molto bassa; e poi vediamo una componente più diffusa ancora. Quindi, dopo le sorgenti puntiformi, dopo aver tolto e caratterizzato le sorgenti più diffuse come i gruppi e gli ammassi di galassie, vediamo ancora qualcosa nel fondo: il cosiddetto background o fondo nei raggi X, dovuto prevalentemente a tutti quegli Agn, cioè i nuclei galattici attivi, cioè i buchi neri, e i gruppi di galassie che non sono risolti, e che si trovano quindi a distanze cosmologiche molto significative che non riusciamo ancora a caratterizzare bene, e che compongono comunque una sorta di fondo non ancora risolto, ma osservabile.
Valentina Guglielmo
E dopo questo insolito excursus scientifico – insolito per questo podcast, ma doveroso visto che parliamo di modi di osservare l’universo particolari e meno conosciuti – torniamo alla storia di Xmm.
[stacco sonoro]
Per massimizzare il tempo in cui Xmm può dedicarsi alle osservazioni – ovvero il tempo nel quale la sua orbita si trova fuori dalla cintura di radiazioni che circonda la Terra, la fascia di Van Allen – il satellite si muove su un’orbita ellittica molto allungata, con il perigeo a 20mila chilometri dalla Terra e l’apogeo a 120mila chilometri. Per percorrerla ci mette esattamente due volte il tempo che la Terra impiega a ruotare su sé stessa, ovvero 48 ore. Un tempo che gli consente di mantenere un contatto ottimale con le stazioni di Terra che lo seguono, e con le quali comunica – e qui state attenti perché è tutta qui la questione – grazie a due antenne, che usa in maniera alternata in base alla posizione, in modo da ottimizzare il collegamento con la stazione ricevente.
Tornando a quel sabato 18 ottobre 2008, dunque, mentre il mondo si godeva il weekend e io giocavo a pallavolo, Xmm si stava avvicinando al perigeo, il punto di massimo avvicinamento alla Terra. Con un’operazione noiosamente routinaria, il satellite doveva cambiare stazione ricevente passando da quella di Santiago del Cile, in quel momento collegata grazie a una delle due antenne di cui parlavamo prima, a quella di Villafranca in Spagna, che avrebbe invece usato l’altra antenna di Xmm per comunicare. Fra una e l’altra, era prevista una finestra di interruzione di circa un’ora. Il team che lavorava al centro di controllo a Darmstadt aveva caricato i comandi per eseguire il cambio antenna a bordo del satellite, e attendeva lo scadere dell’ora. A tempo di attesa scaduto, terminata quindi la finestra nominale di interruzione del segnale, ci si aspettava un nuovo segnale da Xmm. Ma il segnale non arrivava.
Paolo Ferri
Xmm è un satellite che praticamente non ha mai avuto problemi. Un giorno nel 2008, ottobre 2008, mentre avevamo un Aos, che sta per Acquisition of signal, ovvero l’inizio del passaggio del satellite davanti alla stazione ricevente, non riceviamo alcun segnale da Xmm. Come abbiamo sentito in tante di queste interviste, per il nostro lavoro non ricevere il segnale è la cosa più tremenda perché non sappiamo cosa fare. Comunque abbiamo le nostre procedure, quindi controlli, controlli se hai puntato nella direzione giusta, sì, dovremmo averlo calcolato bene; la stazione funziona, sì, va bene. Allora, dopo i primi tentativi, boh. Forse si sapeva che tra il contatto precedente, che era poche ore prima, e questo contatto, il satellite aveva cambiato il collegamento. Il satellite ha a bordo due antenne omnidirezionali, però c’è sempre una che va meglio, a seconda dell’assetto, per il puntamento a terra, e quindi si calcola sempre qual è la migliore e si collega quella giusta al trasmettitore attivo. Quindi si dice, per il prossimo passaggio è meglio l’antenna numero uno, azioniamo questo commutatore e colleghiamo questa. Per quello dopo, l’antenna due, allora cambio la posizione e collego l’altra antenna. Quindi sapevamo che avevamo azionato questo cambiamento dal trasmettitore, dal trasponder, ricevitore e trasmettitore, ad una nuova antenna.
Valentina Guglielmo
Tutte le procedure standard di recupero a cui faceva riferimento Ferri però non hanno dato alcun esito. Da Xmm nessuna reazione, anzi, nessuna traccia del satellite. Le opzioni erano due: o c’era un problema tecnico a bordo, oppure c’era stato un evento catastrofico in orbita, come lo scontro con qualche detrito spaziale o con un meteoroide.
Dopo il sabato anche la domenica trascorre in silenzio. Il lunedì, finalmente, arriva qualche informazione che sembra scongiurare il peggio. In serata, infatti, gli astronomi amatori che gestiscono il telescopio tedesco Starkenburg, un piccolo strumento di – pensate – meno di mezzo metro di diametro situato a Heppenheim, a una trentina di chilometri a Sud di Darmstadt e ad appena 256 metri sul livello del mare, avevano osservato Xmm muoversi lungo la sua orbita ed erano riusciti a confermare che il corpo del satellite era intatto, che non si vedevano detriti nei paraggi, e che la sua altitudine sembrava rimanere costante.
Paolo Ferri
Prima di tutto abbiamo detto: “beh, allora forse c’è stato un problema col trasmettitore. Prova a inviare un comando per riaccendere il trasmettitore”. Non succede niente. “Prova a inviare il comando ancora per cambiare, per ricomandare questo commutatore”. Non succede niente, non riceviamo segnali. “Allora, magari si è guastato il trasmettitore”. Allora mandiamo comandi per attivare il trasmettitore ridondante e collegarlo a quest’antenna. Insomma, così è passato il primo giorno, credo fosse il 18 ottobre. Tutti disperati. A quel punto ho detto, è successo qualcosa di grave. Allora, Xmm è un satellite con un’orbita molto ellittica, però che arriva a qualche migliaio di chilometri dalla Terra, e lo puoi vedere anche otticamente. Quindi abbiamo chiesto a certi telescopi ottici di guardare se per caso aveva dei detriti intorno, magari era stato colpito da un detrito spaziale. Hanno fatto questa osservazione, sembrava lì: era nel punto previsto dai nostri esperti di dinamica del volo, e sembrava tutto un pezzo. C’era un bel pallino lì, non si vedeva il satellite, però si vedeva un puntino bello, tranquillo, senza cose intorno. Sembrava ancora tutto un pezzo. Osservazioni radar. Siccome era vicino alla Terra, si può mandare un segnale radar, osservare il segnale riflesso, e non solo si determina la posizione, la velocità, che era quella giusta, ma dal doppler del segnale riflesso si può vedere se sta ruotando su sé stesso, e se è in una situazione in cui ha perso il controllo d’assetto. Anche lì sembrava tutto stabile. Insomma abbiamo eliminato tutte queste ipotesi, e l’unica ipotesi rimasta era che questo commutatore, un commutatore a radiofrequenza che, magari un po’ più sofisticato, ma tipo quelli che si comprano al supermercato per le antenne. E abbiamo ipotizzato che un commutatore a radiofrequenza che collegava i due trasponder all’antenna giusta, cioè o uno o l’altro, probabilmente si fosse rotto e non funzionasse più, non collegasse più niente, o si fosse praticamente bloccato in mezzo. Perché se almeno fosse stato bloccato in una delle due posizioni, uno dei due trasponder avrebbe funzionato, ma avevamo provato di tutto. Forse si era mosso, ma si era bloccato in mezzo.
Ipotesi. Che facciamo a questo punto?
Valentina Guglielmo
La mattina seguente, martedì 21 ottobre, utilizzando la potente stazione di terra di 35 metri dell’Esa a New Norcia, in Australia, in una modalità che di solito viene impiegata per le missioni nello spazio profondo, i controllori di terra dell’Esa a Darmstadt sono riusciti a vedere un debolissimo segnale radio proveniente dal corpo del satellite. Vedere questa emissione era un’altra prova a supporto dell’ipotesi che il guasto riguardasse l’interruttore a radiofrequenza, o commutatore, come l’ha chiamato Ferri. Si tratta di un dispositivo che serve per instradare un segnale attraverso un determinato percorso di trasmissione. Nel caso del satellite Xmm, che è dotato di due antenne, questo dispositivo serviva a decidere quale delle due antenne usare per comunicare a Terra, in base alla posizione del satellite lungo l’orbita. Potremmo immaginarlo proprio come un sistema meccanico dotato di una lancetta che si sposta da una posizione a un’altra, lasciando fluire il segnale radio verso una delle due antenne. L’ipotesi dei controllori di volo dell’Esa era che questa lancetta si fosse fermata a metà, incastrandosi in una posizione che non apriva nessuno dei due canali di comunicazione.
Paolo Ferri
A quel punto, abbiamo approfittato, e questa è stata diciamo una fortuna, prima di tutto di essere vicini alla Terra, e poi di avere delle stazioni per lo spazio profondo. Queste stazioni per lo spazio profondo hanno una sensibilità a ricevere i segnali molto più elevata di quelle normali.
In più abbiamo degli equipaggiamenti lì, che noi chiamiamo di radioscienza se vogliamo, che possono semplicemente analizzare il segnale – quello che diciamo in open loop – o meglio analizzano la forma del segnale radio, senza dover entrare e demodulare, o anche lockarsi su una certa frequenza; insomma guardano il segnale, te lo fanno vedere e ti dicono, “questo è quello che sto ricevendo”.
Valentina Guglielmo
Anche se il satellite non riesce a comunicare?
Paolo Ferri
Noi in teoria non ricevevamo niente da Xmm. Però abbiamo detto, se questo pulsante, questo commutatore è bloccato, comunque il trasponder è attivo, ci sono dei cavi, e magari riusciamo a beccare comunque il segnale di Xmm, non attraverso l’antenna, ma semplicemente attraverso il corpo del satellite, una cosa folle. Noi in effetti abbiamo puntato New Norcia, la nostra stazione in Australia, e questa, grazie alla estrema sensibilità che ha di questa strumentazione, eccetera, ha rilevato un segnale alla frequenza di Xmm a -52 dB, mi pare, cioè che vuol dire praticamente inesistente, era appena appena sopra il rumore, ma lo ha ricevuto. E questo ci ha detto, “cavoli, stiamo ricevendo il segnale direttamente dai cavi all’interno del satellite, non attraverso l’antenna, quindi per questo lo riceviamo così debole, ma lo riceviamo: quindi il trasmettitore è acceso, il satellite è lì, deve essere proprio il collegamento all’antenna”.
Allora che facciamo? Bisognava provare di nuovo a comandare questo switch, dargli una botta a questo commutatore, e metterlo nella posizione giusta, almeno provare.
Valentina Guglielmo
Quindi proprio un problema meccanico?
Paolo Ferri
Abbiamo supposto fosse un problema meccanico, abbiamo sperato che fosse un problema meccanico che proprio lo avesse, diciamo, grippato in quella posizione per cui non si poteva più muovere, però il nostro primo problema era provare a muoverlo di nuovo. Come fai? Allora abbiamo preso il trasmettitore più potente, l’amplificatore più potente che avevamo a New Norcia, e quando è passato Xmm gli abbiamo sparato una sequenza di comandi che muovesse sto coso. Niente, anzi in realtà non lo abbiamo fatto subito, abbiamo prima fatto dei test con altri comandi per vedere se stava ricevendo, se in qualche modo riuscivamo a fargli passare comandi.
I test che facciamo sono simili a quelli che abbiamo usato in altre occasioni con Goce o con Cluster, praticamente mandiamo comandi per modificare la forma del segnale radio, per esempio accendendo un transponder per il ranging o spegnendolo, niente di sofisticato ma per confermare che riceve qualcosa. E non siamo riusciti a confermare niente, i comandi sembrava proprio che non li ricevesse. A quel punto abbiamo detto, “un momento, guarda l’orbita e vedi che Xmm ha il perigeo, cioè il punto più vicino alla Terra, proprio sopra la California e gli americani in California hanno delle antenne per lo spazio profondo:perché non chiediamo agli americani di sparare i comandi loro, perché noi dall’Australia siamo a decine di migliaia di chilometri, quindi questo peggiora la nostra possibilità di mandargli i comandi, quelli là magari essendo nel punto più vicino magari ci provano. Allora, grazie a un’interfaccia che avevamo con loro, standard, che usavamo con Integral (un’altra missione), tra l’altro, abbiamo potuto nel giro di poche ore, inviare la nostra sequenza di comandi a loro e loro, quando Xmm è passato, gliel’hanno sparata su. La sequenza dei comandi era tanti comandi al commutatore di riconnettersi nella posizione giusta.
Valentina Guglielmo
Ricapitolando, quindi, il team dell’Esa ha utilizzato la stazione radio per lo spazio profondo della Nasa, la Deep Space Network a Goldstone, in California, per inviare un treno di comandi tutti uguali a Xmm durante il suo passaggio al perigeo. Questa volta, proprio grazie alla vicinanza del satellite, ha funzionato, il commutatore si è sbloccato ristabilendo il contatto fra il satellite e la Terra.
Paolo Ferri
Ha funzionato, abbiamo salvato Xmm. Questo è diciamo, una storia affascinante perché è un guasto di un’unità: Quanto costano questi satelliti, quanto complessi sono? Questa unità è una delle cose più semplici che c’è a bordo. E tra l’altro c’era stato garantito che non c’era possibilità che si rompesse, e che era praticamente impossibile che si fermasse nella posizione centrale.
Al massimo si fermava in una delle due. E invece è successo. Nei mesi successivi abbiamo ricostruito il problema qui all’Esoc, abbiamo fatto dei test e abbiamo visto che – non sappiamo se è stato quello, però è molto probabile – se l’impulso elettrico di muovere questo commutatore fosse stato molto breve, avrebbe dovuto essere normalmente tipo 100 millisecondi di durata, Se fosse durato qualcosa sotto i 15-10 millisecondi, il movimento sarebbe cominciato ma si sarebbe fermato nel mezzo. Quindi supponiamo che ci sia stato per qualche motivo un impulso più breve del solito e lo ha fermato nel mezzo. Da quel momento non abbiamo più toccato questo commutatore. Invece di cambiare la selezione tra il trasmettitore attivo e l’antenna, cambiamo il trasmettitore. Spegniamo quello lì e accendiamo l’altro, così il commutatore resta nella posizione fissa. È una precauzione e non è più successo niente.
Valentina Guglielmo
Lei che ruolo aveva in Xmm?
Paolo Ferri
Nessuno, nessuno. Io lavoravo sulle missioni interplanetarie a quei tempi, quindi in Xmm non ero coinvolto. Poi Xmm è entrato sotto la mia responsabilità quando sono diventato capo dipartimento. Ormai erano passati cinque anni da quel problema. Però me lo sono vissuto insieme ai colleghi perché appunto, per esempio sono stato nella sala controllo delle stazioni perché noi avevamo l’esperienza con le missioni interplanetarie di comunicare. L’idea del ranging trasponder, modestamente, viene da me. Perché l’avevo già sperimentata, tra l’altro. Diciamo, quando uno lavora vicino alla Terra, il segnale radio è una cosa naturale. O c’è o non c’è.
Se c’è ho il contatto con la stazione, se non c’è vuol dire che non ho il contatto con la stazione. Quando uno lavora con le missioni interplanetarie il segnale radio è una risorsa preziosissima da curare, mantenere e anche da utilizzare. La utilizziamo per avere tante informazioni quando non abbiamo il lusso di avere la telemetria. Quindi, quando uno lavora nelle missioni interplanetarie ha un altro atteggiamento verso il segnale radio. Anche io all’inizio della mia carriera lavoravo vicino alla Terra, per me il segnale radio era come tirare sul telefono, metti giù il telefono. Invece nelle missioni interplanetarie il segnale radio è parte della nostra preziosa sorgente di informazioni.
Quindi io sono stato coinvolto più come diciamo un esterno, però l’aiuto è venuto un po’ da noi, quelli delle stazioni hanno fatto il lavoro, però le idee venivano anche da noi perché noi avevamo questa abitudine a trattare il segnale radio come un metodo per trarre informazioni dal satellite quando non hai telemetria.
Valentina Guglielmo
Il contatto con Xmm è stato quindi ristabilito il 22 ottobre 2008 intorno alle 18 circa, ora locale a Darmstadt. Da allora, il telescopio ha ripreso a funzionare e ancora oggi, nonostante la veneranda età di 25 anni, è autore di moltissime pubblicazioni scientifiche.
[estratto audio dal video dell’Esa sui 20 anni di Xmm]
“When Xmm-Newton was launched, we never ever expected it would last 20 years or more…”
Valentina Guglielmo
Ci ho fatto il dottorato su Xmm…
Paolo Ferri
Ecco, perfetto. Quindi, saprà anche che è un satellite di grande successo, sta raccogliendo talmente tanti dati che sicuramente nessuno mai li guarderà, perché ci sarebbe una mole di lavoro altro che per un dottorato…ne produce ancora adesso tantissimi. Un satellite di grande successo lanciato per una missione di due anni, ed è lì da 24 anni. Oggi che giorno è? Il sette dicembre quindi fra poco 24 anni.”
[inizio musica]
Valentina Guglielmo
Per rimanere in tema telescopi spaziali a frequenze energetiche, c’è un’altra storia che val la pena raccontare. Riguarda un telescopio poco più giovane di Xmm, Integral, un satellite per l’osservazione dell’universo nei raggi gamma, che ha ormai superato i vent’anni di carriera e poco più di tre anni fa ha avuto un guasto. Si è spento, ha iniziato a ruotare velocemente su sé stesso e ha rischiato di scaricare completamente le batterie e perdersi per sempre. In pieno inverno pandemico al centro di controllo dell’Esa a Darmstadt, Andreas Rudolph e Richard Southworth, rispettivamente capo della divisione per le missioni astronomiche il primo e operations manager di Integral il secondo, sapevano di avere solo tre ore di tempo. Per sapere com’è andata, vi aspetto nel prossimo episodio di Houston, un podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali.
[fine musica]
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