NUOVA TECNICA DI FRENATA PER RAGGIUNGERE L’ORBITA DESIDERATA

Da Vieste a Marte manovrando i pannelli solari

È un sistema in grado di controllare automaticamente l’assetto dei pannelli solari di una sonda spaziale per consentirle manovre di aerobraking sicure, rapide e ottimali. Lo ha messo a punto una dottoranda in ingegneria aerospaziale della University of Illinois Urbana-Champaign (Usa), l’italiana Giusy Falcone. L’abbiamo intervistata

     27/01/2022

Giusy Falcone, dottoranda in ingegneria aerospaziale alla University of Illinois Urbana-Champaign (Usa) e prima autrice dello studio sull’aerobraking pubblicato il mese scorso sul Journal of Guidance, Control, and Dynamics

Lanciare un satellite destinato a orbitare attorno a Marte è un’impresa complessa, non facciamo fatica a immaginarlo. Quello che invece può sorprendere è quanto sia difficile – una volta che la sonda è giunta a destinazione – riuscire a rallentarla al punto giusto per farle raggiungere l’orbita finale. La tecnica comunemente usata – per Marte e altri corpi celesti dotati di atmosfera – è quella dell’aerobraking: frenare sfruttando in modo calcolato l’attrito prodotto, appunto, dall’atmosfera. Ma è una manovra che richiede tempi lunghissimi, a volte più lunghi dell’intero viaggio: Il Trace Gas Orbiter della prima missione ExoMars dell’Esa, per esempio, lanciato il 14 marzo del 2016 e giunto attorno a Marte sette mesi più tardi, ha dovuto compiere una “frenata calcolata” durata ben undici mesi – dal marzo 2017 al febbraio 2018 – per ridurre la velocità di 3600 km/h, fino ad arrivare a quella necessaria per raggiungere l’orbita richiesta.

Ora però uno studio pubblicato il mese scorso sul Journal of Guidance, Control, and Dynamics da due ricercatori della University of Illinois Urbana-Champaign (Usa) propone una soluzione che potrebbe consentire di ridurre drasticamente questi tempi: agire sui pannelli solari per usarli in modo più efficace come sistema frenante. Prima autrice dell’articolo, firmato insieme al suo advisor di dottorato Zachary Putnam, è l’italiana Giusy Falcone. Nata e cresciuta a Vieste, sulla costa del Gargano, si è laureata in ingegneria aerospaziale a Pisa ed è ora – appunto – a Urbana, nell’Illinois, per il dottorato. «Ma il mio legame con il mare è molto profondo», dice a Media Inaf, «e il mio sogno è quello di lasciare un giorno i campi di mais dell’Illinois per avvicinarmi all’oceano».

Allora come mai la scelta di venire a fare il dottorato proprio a Urbana?

«La scelta di trasferirmi in Illinois è stata dettata da una forte volontà di lavorare nel settore spaziale e di fare ricerca d’avanguardia. L’università dell’Illinois è la quinta migliore università americana in ambito aerospaziale ed ero consapevole che intraprendere un dottorato qui mi avrebbe permesso di approfondire le mie conoscenze nel settore e di crescere professionalmente. Per esempio, ho avuto la possibilità di lavorare sulla missione Asteroid Redirect Robotic Mission per il mio studio di tesi magistrale e di partecipare a incredibili eventi, come il Kiss workshop “Revolutionizing Access to the Martian Surface” nel quale ho avuto la grande opportunità di collaborare con scienziati Nasa, ingegneri di SpaceX e professori provenienti da tutto il suolo americano. Ovviamente, devo molto al mio advisor, il professor Putnam, splendido insegnante che mi ha sempre supportato e ha avuto continua fiducia in me e nei miei progetti».

Progetti come questo che fa ricorso ai pannelli solari per l’aerobraking. È una novità?

«In aerobraking, l’utilizzo dei pannelli solari è oramai una pratica di routine, anzi il loro impiego è fondamentale. La loro grande apertura viene infatti sfruttata per massimizzare la resistenza atmosferica, pertanto essi vengono generalmente mantenuti perpendicolari al flusso del gas durante tutto il passaggio atmosferico. L’idea di ruotare i pannelli solari in aerobraking è invece completamente nuova. Tale rotazione infatti fornisce un potere di manovra nel passaggio in atmosfera, specificatamente consentendo al veicolo spaziale di controllare sia il carico termico sui pannelli solari che l’energia dissipata (decelerazione)».

Ruotarli controllandone e aggiustandone in continuazione l’assetto, come farebbe uno skipper con la vela di una barca, se ho ben capito. “Skipper” che in questo caso sarebbe un algoritmo, del quale lei ha scritto il codice. Quali competenze le sono servite?  

«Molto appropriato il nome “Skipper”, avremmo potuto denominare così il nostro algoritmo! La scrittura del codice ha richiesto diverse nozioni che spaziano dalla programmazione, alla fisica, fino all’ingegneria. Prima di scendere nei dettagli del progetto ritengo però necessaria una premessa: sebbene siano disponibili simulatori orbitali open-source (Gmat, Stk), nessuno di loro include passaggi atmosferici. Nello specifico, pertanto, per sviluppare una generica missione di aerobraking, ho dovuto implementare un simulatore chiamato Aerobraking Trajectory Simulator (Abts), poi rilasciato su GitHub al fine di essere accessibile a tutta la comunità di ingegneria aerospaziale. Abts è in grado di simulare passaggi e rientri atmosferici e di calcolare per me l’orbita e i carichi termici e aerodinamici sullo spacecraft. È stata poi fondamentale la conoscenza di nozioni di guida in rientro atmosferico, di controllo ottimo e, soprattutto, di matematica: è difatti proprio attraverso un problema di controllo ottimo, e alla sua prova matematica, che siamo riusciti a calcolare il profilo d’assetto esatto che i pannelli solari avrebbero dovuto mantenere durante il passaggio atmosferico per rallentare il veicolo rapidamente e nello stesso tempo garantire un ambiente termico sicuro durante tutto il processo. Questa soluzione è stata fondamentale nella definizione dell’algoritmo di guida implementato su Abts. Curiosamente, questo lavoro è nato dal mio progetto d’esame del corso universitario in controllo ottimo che ho seguito durante il secondo anno di dottorato».

Rappresentazione schematica dell’aerobraking con pannelli solari statici e perpendicolari (in alto) a confronto con il nuovo sistema proposto, che utilizza pannelli solari rotanti per controllare attivamente la traiettoria (in basso). Crediti: Uiuc

Di quanto potrebbe migliorare il “tempo di frenata” per un inserimento in orbita marziana?

«Generalmente, l’aerobraking richiede tempi molto lunghi e continui passaggi nell’atmosfera di un pianeta: per esempio, l’aerobraking effettuato dall’ExoMars Tgo dell’Esa ha richiesto 11 mesi, mentre un aerobraking aggressivo come quello effettuato da Mars Odyssey della Nasa ha richiesto due mesi. Con la rotazione dei pannelli solari, l’aerobraking di Mars Odyssey avrebbe richiesto solo 15 giorni. Questo è dovuto al fatto che, convenzionalmente, il passaggio atmosferico in aerobraking deve essere effettuato cautamente per evitare che il surriscaldamento danneggi i pannelli solari. Inoltre, il carico termico aumenta con la densità atmosferica, e generalmente questo incremento è legato alla distanza dal pianeta. In altre parole, più lo spacecraft passa vicino al pianeta, più il riscaldamento dei pannelli solari dovuto alla resistenza atmosferica aumenta. La nostra idea nasce dal concetto che la rotazione dei pannelli solari durante il passaggio di aerobraking permette di disaccoppiare il carico termico con la distanza minima dal pianeta. Questo porta a generare una maggiore resistenza atmosferica totale per passaggio atmosferico: cioè, in sintesi, lo spacecraft decelera più velocemente senza surriscaldarsi.

Quali sono i principali ostacoli da superare?

«Gli ostacoli in aerobraking sono molteplici. Di sicuro il più importante è quello di impedire il danneggiamento dei pannelli solari, dato che sono i componenti fondamentali per la vita del veicolo dopo il completamento dell’aerobraking, ovvero quando il satellite è nella sua orbita finale attorno al pianeta. Come ho già anticipato, i pannelli solari non devono dunque assolutamente surriscaldarsi oltre il limite operativo, e, ancora una volta, tale surriscaldamento è legato alla densità atmosferica. Il vero problema è che l’atmosfera Marziana è altamente variabile e non esistono modelli accurati per prevederla. A livello pratico, se l’atmosfera incontrata dal veicolo è troppo densa, i pannelli solari potrebbero danneggiarsi durante il passaggio. Contrariamente, se è troppo tenue, il veicolo non rallenterà abbastanza. L’utilizzo della rotazione dei pannelli solari non solo permette di volare molto più vicino al pianeta, ma anche di reagire prontamente alle variazioni della densità atmosferica che il veicolo affronta in quel momento e per quel passaggio. Ovviamente, l’utilizzo di un controllo diretto tramite la rotazione dei pannelli solari comporta altre conseguenze, come per esempio, la necessità di riprogettare i giunti cardanici che consentono la rotazione dei pannelli solari, così da renderla più veloce e nel contempo stabile, oppure la necessità di un controllo attivo d’assetto del corpo principale dello spacecraft».

L’avete già proposto a qualche agenzia spaziale?

«Lo studio è stato presentato in alcune importanti conferenze aerospaziali, come l’Astrodinamics Specialist Conference e l’International Planetary Probe Workshop, ricevendo un buon riscontro da parte dei ricercatori, soprattutto quelli Nasa, ma per adesso non è stato ancora proposto ad alcuna agenzia spaziale. Potrebbe però avere un importante riscontro in un futuro non così lontano: infatti, questo sistema di guida può essere sfruttato da piccoli satelliti per uso scientifico, che hanno generalmente un budget molto limitato, e da satelliti di telecomunicazioni orbitanti attorno a Marte. Infatti, i rover su Marte – come Curiosity, Perseverance, il suo drone Ingenuity e gli altri – hanno bisogno di satelliti orbitanti per comunicare con la Terra. Attualmente, ci sono cinque satelliti orbitanti attorno a Marte firmati Nasa ed Esa, tre dei quali operativi da più di 15 anni (curiosamente tre di questi hanno utilizzato l’aerobraking per l’inserimento in orbita marziana). Presto avremo quindi bisogno di un ricambio per garantire una comunicazione stabile con la superficie di Marte, soprattutto in previsione delle future missioni scientifiche e della sua futura colonizzazione».

Il sistema che state sviluppando ha già un nome?

«A dire la verità no; il mio advisor, il professor Putnam, non è un amante degli acronimi, e difatti nonostante noi dottorandi ne abbiamo proposti molti per il nostro gruppo di ricerca (incluso quello da me suggerito: Astri, per Advanced Space Technology Research @ Illinois), continuiamo con orgoglio a essere il Putnam Research Group. Per quanto riguarda il nostro sistema, a me sarebbe piaciuto il nome “Flash” perché, proprio come il supereroe, il veicolo è capace di raggiungere la meta molto velocemente».

Ecco, parlando di cose che le piacciono: com’è stato trasferirsi a Urbana, nell’Illinois? 

«Vivere in America mi ha dato la possibilità di conoscere e di avvicinarmi a tante culture ed idee nuove, basti pensare che alcuni dei miei più grandi amici “americani” sono originari di El Salvador, della Malesia e dell’Australia. Sento però il dovere morale di confessare che, nonostante le opportunità che l’America mi ha dato, il sacrificio di allontanarmi dalle mie radici è stato alto; la mia ambizione ha dovuto scontrarsi con l’importante gap culturale tra i due continenti ai quali entrambi sento ormai di appartenere. Ho dovuto e continuo a lottare con i piccoli grandi lutti quotidiani derivanti dalla lontananza della mia famiglia, degli amici d’infanzia e di quelli dell’università di Pisa. Ho iniziato a festeggiare con gioia il giorno del Ringraziamento, e nello stesso tempo ho provato tanta malinconia per tutti i Natali trascorsi a migliaia di chilometri della mia casa. Infatti, da buona italiana, e ancor più da buona pugliese, la mia famiglia ha un valore inestimabile nel mio quotidiano. Non credo avrei potuto affrontare nemmeno la metà delle difficoltà che un italiano all’estero deve superare senza il loro continuo sostegno. Ah, sì, e poi mi manca il cibo, inteso soprattutto come momento di convivialità».

Prossima tappa?

«Chi lo sa. Innanzi tutto concluderò il dottorato a maggio, concentrandomi sul mio ultimo progetto, che consiste nell’uso del deep reinforcement learning – o apprendimento di rinforzo – per insegnare al mio veicolo in aerobraking a effettuare manovre orbitali autonomamente. Poi, vorrei continuare a lavorare nell’ambito di ricerca spaziale incentrata sul connubio tra intelligenza artificiale e sistemi spaziali. Resterò in America? Per il momento sì. Magari vicino all’oceano, chissà…»


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