È NEI FILAMENTI CALDI DEL MEZZO INTERGALATTICO

Trovata la massa mancante. Di nuovo

Un nuovo studio per una scoperta non così nuova: l’individuazione della materia barionica “mancante”. Trovata ora da un team guidato da Orsolya Kovacs del CfA di Harvard, ma in realtà già individuata da Fabrizio Nicastro dell’Inaf di Roma e colleghi l’anno scorso

     19/02/2019

Il percorso seguito dalla luce del quasar attraverso i filamenti fino a giungere al telescopio spaziale Chandra. Crediti: Nasa/Cxc/K. Williamson, Springel et al.)

Fino a un anno fa il problema era scovarla. Ora comincia a saltare fuori un po’ troppo spesso. Parliamo della “massa mancante”: quel 30-40 per cento di materia barionica – materia ordinaria, dunque: nulla a che vedere con la materia oscura – che per decenni è mancata all’appello, finendo per diventare uno fra i più grandi rompicapi dell’astrofisica contemporanea. I calcoli dicevano che la massa totale dell’universo doveva essere una certa quantità, ma le osservazioni ne vedevano solo due terzi di quella attesa. Come se la bilancia ci dicesse che pesiamo un quintale, ma il nostro aspetto fosse quello di una persona che non raggiunge i 70 kg. Dove li nascondiamo, quei 30-40 kg mancanti?

Ebbene, a distanza di meno di un anno almeno due studi – il primo pubblicato a giugno su Nature da un team a guida italiana, il secondo la scorsa settimana su The Astrophysical Journal (ApJ) – sostengono di averla individuata, questa massa mancante. Entrambi nello stesso “posto”: il cosiddetto warm–hot intergalactic medium (Whim), vale a dire i giganteschi filamenti di gas che collegano le galassie. Entrambi usando lo stesso metodo: l’osservazione “in controluce” del mezzo intergalattico puntando verso un potente quasar alle sue spalle. Ed entrambi con telescopi spaziali per raggi X: l’europeo Xmm-Newton nel caso dello studio su Nature, l’americano Chandra nel caso dello studio più recente, quello su ApJ.

Dello studio su Nature avevamo già avuto occasione di occuparcene all’epoca, dunque concentriamoci per ora su quello più recente. Per stabilire se davvero – e in quale misura – la massa mancante fosse nel Whim, il team guidato da Orsolya Kovacs del CfA di Harvard ne ha cercato la firma spettrale sotto forma di una precisa riga d’assorbimento dell’ossigeno, la cosiddetta O VII. Per farlo, ha puntato il telescopio spaziale per raggi X Chandra della Nasa verso il quasar H 1821+643, a 3.5 miliardi di anni luce da noi, e lo ha osservato per 470mila secondi – vale a dire, oltre cinque giorni – registrando come il mezzo intergalattico posto fra noi e il quasar ne alterava lo spettro. Mezzo intergalattico “tiepido” (warm), e “caldo” (hot), dunque con temperature – rispettivamente – al di sotto e al di sopra dei 100mila gradi (non fatevi mai riempire la vasca da bagno da un astronomo!).

Ciò che hanno visto è appunto la presenza della riga di assorbimento O VII, dunque ossigeno con caratteristiche tali da suggerire che si trovi in un ambiente a circa un milione di gradi. Un risultato compatibile con l’ipotesi che la materia presente nel Whim sia sufficiente  a rendere conto della massa mancante. Per riuscirci, poiché l’assorbimento è molto tenue, hanno però dovuto far ricorso a uno stratagemma statistico, mediando gli spettri di 17 probabili filamenti presenti nel campo osservato da Chandra.

È su questo aspetto metodologico che il nuovo risultato si differenzia maggiormente dal precedente, quello pubblicato su Nature lo scorso giugno da un team guidato da Fabrizio Nicastro dell’Inaf di Roma. In quel caso il quasar sullo sfondo era l’oggetto 1ES 1553+113, e il telescopio spaziale dell’Esa Xmm-Newton aveva puntato in quella direzione per un tempo complessivo di circa tre settimane – l’esposizione più lunga in assoluto su una singola sorgente di quel tipo. E anche allora la risposta era stata positiva: la massa mancante era lì, nei filamenti.

«La soluzione all’enigma della materia mancante era già stata proposta in maniera più diretta da noi», conferma infatti Nicastro a Media Inaf. «Gli autori di questo nuovo lavoro aggiungono un tassello alla comprensione di questo enigma, ma lo fanno utilizzando una tecnica di rilevazione indiretta, che si basa una gran numero di dati che, presi singolarmente, non contengono alcun segnale, ma una volta sommati danno luogo a un debole segnale. La pericolosità insita in questa tecnica – detta di “stacking” dei dati – è che il segnale rilevato nei dati sommati potrebbe semplicemente essere dovuto alla contaminazione dal mezzo interstellare della nostra stessa galassia, e non a mezzo intergalattico più tenue di quello direttamente rilevato da noi l’estate scorsa, come sostengono invece gli autori di questo lavoro».

Per saperne di più:

Guarda il video sul canale YouTube di Chandra (in inglese):