SINO A 1000 VOLTE PIU’ INTENSE DELLE NOSTRE

Aurore d’altri mondi

Anche sui pianeti extrasolari possono esserci le aurore. Estese dall'equatore ai poli, sarebbero una delle conseguenze dell'irrequietezza delle stelle attorno alle quali orbitano.

     22/07/2011

Come veli sottili che ondeggiano nei cieli delle regioni polari, le aurore sono tra i fenomeni naturali più spettacolari. Ancora più emozionanti sono le aurore su altri pianeti, almeno secondo una simulazione al computer eseguita dai ricercatori del Harvard Smithsonian Centre for Astrophysics. La simulazione si basa su un modello che cerca di prevedere quali conseguenze ci possono essere su un pianeta gigante gassoso che orbita molto vicino alla sua stella, una situazione nella quale si trovano molti dei pianeti extrasolari finora individuati. E tra i risultati c’è anche la comparsa di aurore da 100 a 1000 volte più intense delle nostre.

Sulla Terra le aurore appaiono quando, a causa delle “eruzioni” solari, flussi intensi di particelle cariche colpiscono il nostro campo magnetico. Il campo incanala le particelle verso i poli: qui si scontrano con le molecole dell’atmosfera, facendole emettere una luce simile a quella dei neon. Più sono intense le eruzioni solari, più le aurore sono luminose e spettacolari. Non è quindi difficile immaginare come potrebbero essere le aurore su pianeti che orbitano molti vicini alle loro stelle, soggetti di conseguenza a flussi di particelle molto più intensi.

Secondo la simulazione, i cui risultati sono pubblicati sull’ Astrophysical Journal, nel caso di un pianeta gigante gassoso l’aurora appare come un anello attorno al’equatore, sino a 1000 volte più intensa che sulla Terra. Nell’arco di sei ore si estende verso i poli, coprendo buona parte del pianeta per poi scomparire gradualmente.

Nonostante la vicinanza alla stella e la forza del fenomeno, il pianeta non riporterebbe alcun danno, perché protetto dal suo campo magnetico. Al di là dell’aspetto spettacolare, è questo il risultato che più interessa i ricercatori, già al lavoro su una nuova simulazione che dica se anche i pianeti rocciosi vicini alla propria stella, e sui quali potrebbe svilupparsi la vita, sono in grado di reggere una simile forza d’urto.