LOST IN SPACE, LOST IN TRANSLATION

Viaggi interstellari: problemi linguistici all’orizzonte

Fra i tanti ostacoli che si troveranno ad affrontare gli equipaggi di eventuali futuri viaggi interstellari, ce n’è anche uno di comunicazione. In un articolo pubblicato su Acta Futura due linguisti esplorano le conseguenze del cambiamento della lingua nel corso di lunghi viaggi intergenerazionali e suggeriscono soluzioni per limitarne l’impatto

     08/07/2020

Fonte: Pixabay

Slang, termini dialettali e cadenze linguistiche sono lo specchio della cultura, l’identità di un territorio, sia esso una regione o un paese. Questa varietà di registri linguistici, se da un lato va certamente salvaguardata, dall’altro può creare problemi di comunicazione. Lo so, state iniziando a pensare cosa diavolo abbia a che fare questo argomento con l’astronomia. Adesso ci arriviamo.

La capacità di compiere viaggi interstellari con equipaggio umano è frenata dalle enormi distanze. La tecnologia attualmente disponibile non permette infatti di percorrere simili tragitti in tempi ragionevoli. Inoltre c’è anche da considerare il rischio per la salute degli astronauti nell’affrontare voli così lunghi – rischio elevatissimo anche solo per una “breve” missione interplanetaria. L’idea di effettuare un viaggio a bordo di una navicella spaziale e mettere piede su pianeti ad anni luce di distanza ha comunque stuzzicato la fantasia di molti scrittori di fantascienza, così come quella di alcuni scienziati. Per superare il problema delle enormi distanze interstellari, una possibilità è quella di costruire le cosiddette navicelle generazionali (generation ships, in inglese): una sorta di Enterprise in grado di viaggiare a velocità elevatissime, autosufficiente e destinata a ospitare generazioni di esseri umani, in vista di un viaggio lungo diversi anni. Navicelle come, per esempio, quelle ipotizzate su Acta Futura – una rivista edita dall’Agenzia spaziale europea – nell’articolo “World Ships: Feasibility and Rationale“.

Una soluzione, questa del viaggio lungo più generazioni, che se mai un giorno sarà fattibile – e qui veniamo al dunque – solleva tra i tanti anche un problema di comunicazione. Sì, avete capito bene: comunicazione verbale. E non tra eventuali forme di vita extra-terrestri e l’equipaggio, bensì tra noi umani.

Jeffrey Punske, professore associato di linguistica alla Southern Illinois University, durante un TEDx Talk dal titolo: Linguistics in Space: Aliens, Long-Distance Space Travel Science. Crediti: TEDx

A dirlo sono Andrew McKenzie e Jeffrey Punske, due professori di linguistica americani – il primo all’Università del Kansas, il secondo all’Università del Sud Illinois. In un recente articolo, pubblicato anch’esso su Acta Futura, esplorano le conseguenze che i cambiamenti della lingua, nel corso di un lungo viaggio interstellare, potrebbero avere nella comunicazione tra l’equipaggio e noi terrestri, o tra l’equipaggio e gli astronauti di un eventuale insediamento interplanetario. Secondo i due studiosi, infatti, durante i viaggi spaziali a lunga percorrenza la lingua utilizzata dagli astronauti potrebbe subire modifiche sostanziali, d’entità proporzionale al tempo di isolamento intercorso dal lancio, rendendo il loro linguaggio incomprensibile non solo per noi terrestri ma anche per esploratori precedenti che avessero già colonizzato il pianeta di destinazione.

Nell’articolo, McKenzie e Punske discutono dei vari aspetti che contribuiscono al cambiamento della lingua attraverso il confronto con casi studio osservati sulla Terra, come l’insediamento polinesiano delle isole del Pacifico e lo sviluppo del dialetto in colonie europee relativamente isolate. Valutano gli effetti del melting pot culturale e linguistico tra i membri dell’equipaggio, con o senza una lingua franca in uso. E senza dover andare troppo lontano, gli autori citano un esempio il cambiamento nella lingua di cui loro stessi hanno fatto esperienza con l’insorgenza del cosiddetto uptalk, ovvero la tendenza ad alzare l’intonazione della frase nella parte finale, come se fosse una domanda. «L’uptalk è un fenomeno che si è visto solo negli ultimi 40 anni», scrivono i due linguisti, «ma si è diffuso da piccoli gruppi di giovani americani e australiani alla maggior parte del mondo anglofono, perfino fra molti baby boomers che non lo usavano da giovani. Su tempi più lunghi, nuove forme grammaticali possono completamente sostituire quelle attuali».

Andrew McKenzie, professore di linguistica all’Università del Kansas e co-autore della pubblicazione. Crediti: University of Kansas

«Se sei su una navicella spaziale da dieci generazioni», spiega McKenzie, «emergeranno nuovi concetti, si presenteranno nuove questioni sociali, e le persone creeranno nuovi modi per parlarne tra loro, dando così origine al peculiare vocabolario della navicella. Chi è rimasto sulla Terra potrebbe non venire mai a conoscenza di queste parole, a meno che non ci sia un motivo per comunicargliele. E più ti allontani, meno parlerai con chi non si è mosso da casa. Le generazioni passano, e a casa non sarà rimasto più nessuno con cui parlare. D’altronde non c’è molto che tu gli voglia dire, perché lo sentirebbero con anni di ritardo, e a loro volta ti risponderebbero dopo anni. Il collegamento con la Terra andrà sempre più affievolendosi, fino a che arriveremo forse al punto in cui non c’è alcun più contatto reale, tranne che per inviare aggiornamenti occasionali».

«La lingua cambia sulla navicella, cambia ulteriormente in un’eventuale colonia, e la domanda diventa: “Continuiamo a preoccuparci di imparare a comunicare con chi è rimasto sulla Terra?” Sì. L’inglese della Terra e l’inglese della navicella divergeranno nel corso degli anni, dunque dovremo imparare un po’ di inglese della Terra per inviare messaggi o leggere i manuali di istruzioni e le informazioni fornite con la nave. Ma nel frattempo anche la lingua sulla Terra continuerà a cambiare, quindi potremmo trovarci a comunicare come se stessimo usando il Latino – parlando in una lingua che sulla Terra non starà usando più nessuno».

Gli stessi problemi linguistici, notano inoltre gli autori, si verificheranno anche con gli astronauti che abbiano già raggiunto un corpo celeste alieno e l’abbiano colonizzato. Anche la loro lingua cambierà. Un viaggio di pochi mesi, la storia lo dimostra, non è abbastanza lungo per dare origine una nuova varietà linguistiche. Ma se il viaggio dura anni o generazioni, l’equipaggio svilupperà un proprio dialetto, o potrebbe addirittura dare vita a una nuova lingua, che sarà molto differente da quella della colonia nella quale arriveranno. In entrambi i casi, osservano gli autori, “da ogni nuova navicella sbarcheranno immigrati linguistici in una terra straniera”.

Come affrontare il problema? «Poiché in scenari come quelli prefigurati non c’è dubbio che questi problemi sorgeranno, e non è certo quale possa essere la loro evoluzione, suggeriamo vivamente che i membri dell’equipaggio, oltre a conoscere le lingue richieste, abbiano anche un ottima preparazione metalinguistica», concludono gli studiosi, sottolineando come uno studio metalinguistico sui cambiamenti della lingua durante la missione, oltre a essere utile, aumenterebbe anche il suo valore scientifico.

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