INTERVISTA A LORENZO BORGHI

Orti spaziali con gli strigolattoni

Come fornire cibo in modo sostenibile ai futuri esploratori spaziali? Si pensa alla possibilità di coltivare su altri pianeti. Un gruppo di ricercatori dell'Università di Zurigo e dell'Università di Scienze Applicate e Arti di Lucerna ha studiato il processo di micorriza come metodo essenziale per fornire nutrimento alle piante in condizioni estreme come quelle extraterrestri

     22/10/2018

Le piante che secernono alti livelli di strigolattoni sono in grado di prosperare nei terreni con pochi nutrienti, nonostante le condizioni di microgravità. Crediti: istock.com/1971yes

Non solo le agenzie spaziali, come la Nasa, ma anche imprenditori privati, come Jeff Bezos e Elon Musk, accarezzano da un po’ di tempo l’idea di missioni per tornare sulla Luna o toccare il suolo marziano, nell’immediato, con la prospettiva di costruirvi colonie in un futuro più lontano. Tali visioni portano con sé enormi sfide in diversi campi, tra le quali cruciale è come fornire in modo sostenibile cibo per le persone nello spazio durante spedizioni umane di lunga durata. Una possibilità è la coltivazione in loco sui diversi corpi celesti visitati o colonizzati, ma i terreni sono sicuramente meno nutrienti rispetto al terreno agricolo terrestre e la gravità è inferiore.

In un articolo pubblicato su Nature Microgravity, un gruppo di ricercatori dell’Università di Zurigo e dell’Università di Scienze Applicate e Arti di Lucerna si è concentrato sul processo di micorriza, un’associazione simbiotica tra funghi e radici delle piante. Questa simbiosi è stimolata dagli ormoni della famiglia degli strigolattoni, che la maggior parte delle piante secerne nel terreno attorno alle radici e che diventa essenziale in condizioni estreme come quelle dello spazio.

Spinto dalla curiosità di studiare qualcosa di visibile e manipolabile, come può essere un pianta, e dall’entusiasmo trasmessogli dal gruppo di biologia vegetale della professoressa Colombo all’Università degli studi di Milano, dopo un periodo in Germania – tra Colonia e Düsseldorf – per studiare meristemi e ormoni vegetali, e infine a Zurigo, prima al Politecnico federale (Eth) e ora all’Università, dove si occupa di ormoni vegetali e interazioni piante-funghi, Lorenzo Borghi è stato l’ideatore della ricerca appena pubblicata. Media Inaf lo ha intervistato.

Come è nata l’idea di studiare la micorriza per lo spazio?

«La passione per lo spazio è tardiva, se escludiamo la fantascienza. Nel 2011 frequentai per curiosità un satellite-meeting alla conferenza Epso (European Plant Society Organization) di Friburgo, in Germania. Esa, Nasa e altri ricercatori in plant space biology annunciarono che era il tempo di cambiare approccio per esperimenti nello spazio. In particolare, di passare dalla pianta modello Arabidopsis (una “erbaccia”) a qualcosa di più vicino all’utilizzo per la nutrizione umana. Io avevo appena iniziato a lavorare sugli strigolattoni, ormoni vegetali secreti dalle radici delle piante, recentemente caratterizzati (nel 2005) come stimolanti per la simbiosi pianta-fungo denominata micorriza. Dopo una conferenza sugli strigolattoni in Israele nel 2013, mi venne l’idea di usare le micorrize nello spazio. Gli organizzatori di questo evento ci portarono nel mezzo del deserto a sud di Gerusalemme a visitare piantagioni di peperoni. Era incredibile come fossero riusciti a trasformare sabbia in terra agricola. Avevano dovuto portare tutto: terra, irrigazione a goccia, piante, serre. Erano coltivazioni terrestri, ma sembrava di essere su un altro pianeta appena si metteva il naso fuori dalle serre. Portare terra nello spazio però è difficile da proporre e da attuare, un miracolo troppo costoso e anche ecologicamente non sostenibile: già sulla Terra abbiamo problemi legati alle limitate quantità di terreno agricolo e limitate risorse per fertilizzanti. Portare le nostre risorse da altre parti sembra una strada da non percorrere.  Pensai quindi che le micorrize, con la loro capacità di aumentare il volume radicale di una pianta, avrebbero permesso a piante utili per l’uomo di crescere anche in ambienti inospitali come i terreni lunari».

Lorenzo Borghi, ricercatore all’Università di Zurigo. «Questo è il mio lavoro che è durato più a lungo», racconta a Media Inaf a proposito del suo ultimo studio, «a causa di una lunga pausa intermedia. Il lavoro appena pubblicato era stato iniziato per riuscire adottenere un grant Esa nel 2014 e spedire le petunie e i funghi sulla Iss. Purtroppo il progetto fu lasciato a metà. Con l’aiuto del gruppo di ricerca che sono riuscito a costruire grazie alla generosità di Enrico Martinoia a Zurigo nel corso degli anni e alla pazienza del mio collaboratore Marcel Egli a Lucerna, ho ripreso il progetto in mano nel 2016 e l’ho portato a compimento col mio gruppo quest’anno. La pausa è stata lunga, ma grazie all’esperienza accumulata con esperimenti paralleli sui funghi, essa ci ha permesso di capire che non solo la pianta, ma anche i funghi avrebbero potuto avere qualche conseguenza dall’assenza di gravità».

Dal vostro studio, si direbbe che per consentire la crescita delle piante fuori dalla Terra i funghi siano essenziali, al pari degli strigolattoni. Può spiegarci come mai questa simbiosi diviene così importante?

«La simbiosi plant-mycorrhizal fungi è molto importante su terreni poveri di nutrienti. Le radici delle piante riescono a prelevare nutrienti da una porzione molto piccola del terreno, chiamata rizosfera, ossia quella parte del terreno che è immediatamente attaccata alle radici. Con una rizosfera povera in azoto e fosforo e altri elementi la pianta fatica o ferma la crescita. I funghi micorrizogeni, attirati dagli strigolattoni essudati dalle radici delle piante, penetrano nelle radici e amplificano il volume di suolo innumerevoli volte, grazie alle sottili ife fungine, lunghe e che penetrano spazi che le radici vegetali, più spesse, non raggiungono. Quindi sia gli strigolattoni che i funghi fanno un ottimo lavoro per permettere la crescita delle piante su suoli poveri fino alla produzione dei semi, la parte a cui noi siamo più interessati se pensiamo a colture come mais, riso, orzo, grano, eccetera. Come ci aspettiamo che siano i suoli lunari o di altri pianeti? Più poveri sicuramente di un campo coltivato, e sicuramente senza quel bioma – batteri e funghi principalmente – così necessario per le radici delle piante come lo sono i batteri nel nostro intestino per assorbire nutrienti. Ci saranno funghi terrestri che si adatteranno al suolo alieno? Sono ottimista: funghi micorrizogeni si trovano in ogni nicchia sulle terre emerse del nostro pianeta, anche nel deserto. Questa simbiosi pianta-funghi esiste da almeno 500 milioni di anni (come mostrano i fossili), ossia si è mantenuta malgrado i cambiamenti climatici di mezzo miliardo di anni.

È stato molto interessante trovare che piante che essudano più strigolattoni permettono una compensazione degli effetti negativi della microgravità, un recupero della biomassa e anche del livello di micorrizazione. Abbiamo usato a supporto di questa compensazione anche strigolattoni di sintesi applicati a funghi micorrizogeni cresciuti in microgravità e abbiamo trovato che, malgrado essa, gli strigolattoni permettono lo sviluppo completo dei funghi, altrimenti inibito. Siamo quindi giunti alla conclusione che piante che essudano più strigolattoni, assieme alla presenza di funghi micorrizogeni, potrebbero essere utili per la coltivazione in ambienti con gravità inferiori a quelle del pianeta Terra o in missioni spaziali di lungo termine. In entrambi i casi i nutrienti nel suolo sarebbero limitati e la gravità debole, o assente del tutto».

Come avete simulato il terreno di altri corpi celesti?

«In questo esperimento non abbiamo avuto accesso a suolo lunare o simil-marziano. Abbiamo usato suolo terrestre povero in nutrienti che avevamo precedentemente usato con successo a dimostrazione che piante che essudano più strigolattoni (piante ottenute transgenicamente nel nostro laboratorio) hanno la capacità di produrre più biomassa, perché fanno più simbiosi con i funghi micorrizogeni. Abbiamo usato queste piante per vedere quale potesse essere l’influsso della microgravità sulla simbiosi e abbiamo trovato che essa ha un effetto negativo sulla simbiosi perché lo sviluppo dei funghi è alterato dalla microgravità».

E le condizioni di microgravità, come le avete riprodotte?

«Fortunatamente, all’Eth Marcel Egli aveva sviluppato una macchina per simulare l’assenza di gravità: una random positioning machine (Rpm) in tre dimensioni. Tramite il lavoro dell’officina dell’università di Zurigo, abbiamo ricostruito le camere di crescita presenti sulla Stazione spaziale internazionale (Iss), le abbiamo fissate alla Rpm e studiato lo sviluppo delle piante su cui lavoravamo, le petunie. Le petunie non erano state scelte per la loro bellezza o profumo, ma perché l’Università di Zurigo aveva una collezione di petunie mutanti per la produzione di strigolattoni o per la loro secrezione dalle radici. Era il materiale ideale per vedere quanto la microgravità influenzasse il trasporto di strigolattoni, lo sviluppo delle piante, quello dei funghi e infine l’efficienza della micorriza».

Dal vostro studio, potete identificare qualche pianta più adatta alla coltivazione sulla Luna? 

«Senza volere portare organismi modificati geneticamente per essudare alti livelli di strigolattoni sulla Luna o nello spazio, si potrebbero selezionare varietà terrestri di cereali e solanacee [come le petunie, ma anche pomodori, patate e melanzane, n.d.r.], che hanno alti livelli di essudazione di strigolattoni, per poi provarli in microgravità, vera o simulata».

E su Marte, meglio gli asparagi o le patate?

«Per quello che sappiamo oggi, direi meglio le patate, per il contenuto energetico. Entrambe le piante sono comunque host di funghi micorrizogeni: sono poche le piante non-host, quindi la scelta è grande. La scelta delle piante dipenderà dalla composizione dei suoli extraterrestri e dalla facilità di costruire ambienti controllati (serre) fuori dal pianeta Terra. E dall’adattabilità dei funghi ai suddetti suoli alieni».

Piante coltivate in ambienti così difficili e ostili risulterebbero nutrienti per gli astronauti (o futuri coloni) al pari di quelle che vengono coltivate sulla Terra o servirebbe un maggior numero di piante per sopperire al loro fabbisogno?

«Piante di serra e piante di campo hanno livelli di nutrienti simili. Quello che cambia sono talvolta le qualità organolettiche. Vivo all’estero da diciassette anni, ma dovunque io mi trovi preferisco pagare il doppio e comprare pomodori cresciuti in Sicilia piuttosto che in altre regioni meno soleggiate, per fare un esempio concreto. Non vedo particolari problemi di irradiazione solare per la Luna o Marte».

Quale utilità possono trarre da questi studi gli agricoltori terrestri, invece che spaziali?

«Questo progetto sulla manipolazione dell’essudazione radicale di strigolattoni non era nato per lo spazio: le micorrize possono essere viste come valide alternative per un’agricoltura sostenibile prima di tutto sul pianeta Terra. Chi ha un orto avrà già maneggiato micorrize per aumentare la resa vegetale e diminuire l’immisione di fertilizzanti nel terreno. Gli studi sui funghi micorrizogeni hanno preso piede negli ultimi anni, in quanto sono visti come alternativa ecologica e sostenibile per la crescita agricola. La scoperta di interazioni molto strette tra batteri e micorrize fanno capire come l’efficienza di un suolo agricolo sia molto di più che piante e fertilizzanti: piante, batteri e funghi sono i protagonisti biologici e le nostre conoscenze sulle interazioni tra questi tre partner e il suolo stanno crescendo vertiginosamente. Tutto quello che verrà prodotto da questo tipo di ricerche avrà una gran risonanza nelle pratiche agricole del prossimo futuro, prima di tutto sulla Terra e poi nello spazio».

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