UN METODO PER RIMUOVERE LE LENTI GRAVITAZIONALI

Anelli di Einstein? No grazie

Dimostrata per la prima volta l’efficacia di un metodo per ripulire le mappe della radiazione di fondo cosmico a microonde utilizzando le misure di fondo cosmico a infrarossi del satellite Planck. Carlo Burigana (INAF): «In futuro potrà servire per la ricerca delle onde gravitazionali primordiali»

     05/10/2016
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Mappa delle anisotropie del CIB, il fondo cosmico a infrarossi, ottenute dai dati di Planck (la porzione in grigio è stata mascherata ai fini dell’analisi). Fonte: P. Larsen et al. / Phys. Rev. Lett.

Chi non vorrebbe una lente gravitazionale? Gli astronomi ne vanno pazzi: quando sono piazzate nel posto giusto – già, perché di spostarle non se ne parla – questi “teleobiettivi” senza rivali messi a disposizione dalla Natura sono in grado di mostrarci galassie così distanti che nessun telescopio esistente potrebbe mai sperare di vederle senza il loro aiuto. Gli astronomi ne vanno pazzi, dicevamo. Ma non tutti. Per alcuni cosmologi, questi concentratori naturali previsti – e abbondantemente confermati – dalla relatività generale di Einstein sono un fastidioso disturbo di cui sbarazzarsi.

Questo perché, se è indubbio che “ingrandiscono” quel che sta alle loro spalle, purtroppo introducono anche notevoli, quanto inevitabili, distorsioni. Del resto, non è un caso se vengono chiamate anche “anelli di Einstein”: la curvatura che imprimo alla luce emessa dalle sorgenti dietro di esse è infatti tale da stravolgere, per esempio, l’immagine di una bella galassia ellittica, nei casi più fortunati, in un bell’anello. Fenomeno affascinante e utile quanto si vuole per studiare, appunto, una galassia remota. Ma alquanto seccante per chi, all’apparente “avvicinamento” dovuto alla concentrazione dei raggi di luce, preferisce la fedeltà. Ovvero, l’assenza di deformazioni. Com’è il caso di chi studia la radiazione cosmica di fondo a microonde, quella CMB nella cui mappa è impressa la fotografia dell’universo bambino, e che si trova ben al di là anche della galassia più lontana: così sul fondo che più fondo non si può, essendo essa stessa la luce primordiale.

Nell'animazione, l'effetto "zoom" di una lente gravitazionale (in questo caso, un buco nero) deforma la galassia che si vede transitare sullo sfondo producendo un anello di Einstein. Crediti: Wikimedia Commons

Nell’animazione, l’effetto “zoom” di una lente gravitazionale (in questo caso, un buco nero) deforma la galassia che si vede transitare sullo sfondo producendo un anello di Einstein. Crediti: Wikimedia Commons

Ecco allora che un team di ricercatori del Kavli Institute for Cosmology di Cambridge, nel Regno Unito, e dell’università di Berkeley, negli USA, ha provato a fare l’esatto contrario di ciò in cui di solito si cimentano molti dei loro colleghi: non cercare nuove lenti gravitazionali, dunque, bensì tentare di rimuovere quelle che ci sono. Delensing, in inglese: togliere le lenti. Il loro metodo, descritto in un articolo pubblicato oggi su Physical Review Letters, caratterizza l’effetto di lente gravitazionale misurando – grazie alle mappe della CMB a 545 e 857 GHz prodotte del telescopio spaziale Planck – il suo impatto sul fondo cosmico a infrarossi (CIB): un’emissione dovuta a polverose galassie nelle quali è in corso intensa attività di formazione stellare. Il contributo delle lenti gravitazionali può in questo modo essere sottratto dalle mappe della CMB. Un’operazione mai dimostrata prima, questa di delensing, e che potrebbe essere di grande utlità per le future ricerche di segnali debolissimi, come la firma di onde gravitazionali primordiali, nella radiazione cosmica di fondo a microonde.

«La novità dell’interessante lavoro di Patricia Larsen e collaboratori», spiega a Media INAF Carlo Burigana, ricercatore all’INAF IASF di Bologna e membro del team scientifico di Planck, al quale abbiamo chiesto un commento, «consiste nell’uso dei dati nel lontano infrarosso, e precisamente del fondo cosmico infrarosso (CIB), che dovrebbe tracciare piuttosto bene lo stesso potenziale che agisce sui fotoni del CMB, essendo prodotto da galassie ad alto redshift, e quindi presentare un alto grado di correlazione con la struttura su larga scala nelle epoche cosmiche rilevanti per l’effetto di lensing sul CMB».

«La metodologia viene applicata su un set di dati coerente: quelli del satellite Planck dell’ESA, che, grazie alla sua larga copertura in frequenza, “mappa” sia le anisotropie di CMB sia quelle del CIB. Per ora gli autori considerano i soli dati in intensità totale (quelli in temperatura), dato che i due canali a più alta frequenza di Planck non sono sensibili alla polarizzazione», sottolinea Burigana. «In futuro, l’estensione dell’analisi ai dati di polarizzazione – ad esempio quelli di un satellite come COrE, del quale abbiamo appena sottomesso la proposta all’ESA – porterà a risultati ancora più interessanti e ricchi di prospettive per lo studio dei “modi B” attesi dalle onde gravitazionali primordiali, studio che richiede appunto una sottrazione molto accurata dell’effetto di lensing oltre che di tutti i segnali astrofisici di foreground».

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